mercoledì 29 agosto 2012

Conferenza del Prof. Alberto Mariantoni.

La S.V. Illustrissima è invitata alla presentazione del libro di Alberto B. Mariantoni « Le storture del male assoluto » I “crimini” fascisti che hanno fatto grande l’Italia Herald Editore – Roma Giovedì 13 Settembre 2012 – ore 17:30 Presso la Libreria Ritter Via Maiocchi 28 (angolo Viale Abruzzi), Milano Mezzi pubblici: Linea 92; Linea 60 Tram (a circa 300 metri): N. 23; N. 33; N. 11 Metropolitana Rossa (MM1) – a circa 500 metri – Fermata Lima

lunedì 27 agosto 2012

Milano: la X MAS sfila a Porta Venezia.

Immagine storica: Marò Volontari della Decima Flottiglia Mas del Comandante Principe Junio Valerio Borghese marciano fieri in Porta Venezia-Corso Buonos Aires a Milano.

domenica 26 agosto 2012

JUNIO VALERIO BORGHESE

26 Agosto 1974 – In ricordo di Junio Valerio Borghese Nacque in una delle famiglie più blasonate della nobiltà capitolina il 6 giugno del 1906 ad Artena in provincia di Roma. Di antiche origini senesi , con tre cardinali, un Papa e la sorella di Napoleone Bonaparte fra i suoi rami araldici. Visse nei primi anni di vita in viaggio fra l’Italia e le principali capitali estere, soggiornando in Cina, Egitto, Spagna, Francia e Gran Bretagna. In Italia trascorse per lo più il suo tempo a Roma e ai Castelli Romani. Sposò a Firenze, il 30 settembre del 1931, la russa contessa Olsoufiev Schouvalov, da cui ebbe quattro figli. Attratto dalla vita militare, nel 1922 venne ammesso ai corsi della Regia Accademia Navale, dalla quale uscì nel 1928 con il grado di guardiamarina; dovette comunque attendere quasi un anno per avere il suo primo imbarco, sull’incrociatore Trento. Nel 1930 venne promosso sottotenente di vascello e imbarcato su una delle torpediniere operanti in Adriatico. L’anno successivo frequentò il corso superiore dell’Accademia Navale, e nel 1932 venne trasferito ai sommergibili. Dopo aver frequentato il corso di armi subacquee, nel 1933, promosso Tenente di vascello, venne imbarcato dapprima sulla Colombo, quindi sulla Titano. Nonostante avesse nel frattempo conseguito i brevetti di palombaro normale e di grande profondità, fu solo nel 1935 che ricevette il primo incarico di sommergibilista, partecipando alla guerra d’Etiopia, dapprima imbarcato a bordo del sommergibile Tricheco, successivamente del Finzi. Nel 1937 assunse, infine, il primo comando. Con il sommergibile Iride prese parte alla guerra civile spagnola. In quell’occasione il sommergibile fece parte ufficialmente della flotta nazionale spagnola. In seguito all’esperienza della guerra civile spagnola venne decorato l’8 aprile del 1939 della Medaglia di Bronzo al Valor Militare per l’elevato spirito offensivo e le solide qualità professionali dimostrate nel corso delle operazioni. Trasferito successivamente presso la base di Lero, nel Dodecaneso, vi rimase fino all’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940. Nelle prime fasi del conflitto, come Comandante del sommergibile Vittor Pisani, prese parte alla battaglia di Punta Stilo e a una serie di falliti tentativi di forzare il porto di Gibilterra, tra il settembre e l’ottobre del 1940. Promosso Capitano di corvetta, nel 1941 venne designato alla Decima Flottiglia Mas, dove assunse gli incarichi di Comandante del sommergibile Scirè e di capo del reparto subacqueo. Anche con il suo contributo vennero pianificati e realizzati i progetti per il forzamento delle rade di Gibilterra e Alessandria, per questo nominato Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia. In seguito alla prima riuscita azione su Gibilterra, il 2 gennaio del 1941 gli viene conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Immediatamente dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, Junio Valerio Borghese, costituì un reparto di volontari denominato Decima Mas, riuscendo a concludere, il 14 settembre, un accordo con Max Berninghaus, comandante navale delle forze del Terzo Reich in Liguria, con il quale la neonata flottiglia venne riconosciuta quale unità combattente con piena autonomia in campo logistico, organico, della giustizia, disciplinare e amministrativo e battente bandiera italiana. Alla nascita, pochi giorni dopo, della Repubblica Sociale Italiana, la Decima Mas fu inserita nell’organico della Marina Nazionale Repubblicana, sebbene essa agisse di fatto in maniera del tutto autonoma. Nonostante i contrasti con i vertici politici e militare della Repubblica Sociale Italiana, le sue forze furono impegnate su tutti i fronti più importanti, a partire da quello di Anzio e di Nettuno. Il regolamento della Decima Mas prevedeva la totale uguaglianza fra ufficiali e truppa, promozioni guadagnate solo sul campo, pena di morte per i Marò colpevoli di furto, saccheggio, diserzione o vigliaccheria di fronte al nemico. I militari della Decima Mas furono tutti volontari, provenienti dalle più diverse armi delle Forze Armate Repubblicane. Non si registrò mai un calo del numero di volontari e infatti si costituirono numerosi corpi di fanteria di marina, il tutto anche in virtù della popolarità che Junio Valerio Borghese riscuoteva fra le masse. L’attività della Decima Mas non si limitò alle incursioni navali contro le forze nemiche, ma si estese alla costituzione di reparti di terra che assunsero al termine del conflitto le dimensioni di una vera e propria divisione di fanteria leggera. Tuttavia a causa dell’opposizione tedesca la Divisione Decima Mas non poté mai entrare in azione come unità organica, ma fu frazionata in battaglioni usati dai comandi tedeschi sul fronte della Linea Gotica e poi del Senio. Una parte della Divisione era pronto per muovere sul confine orientale, per difendere Trieste e Fiume dall’avanzata degli jugoslavi, ma fu bloccato prima dai tedeschi e poi dalla svolta rappresentata dalla Liberazione nell’aprile del 1945. A partire dal 1944 la Decima Mas fu impiegata anche in attività antipartigiane e rastrellamenti di civili nelle zone dove agivano i partigiani. Gli ultimi reparti della divisione, decimati dagli attacchi inglesi, si arresero a nord di Schio, in Veneto, il 2 maggio del 1945. Al termine del conflitto, dopo lo scioglimento formale della Decima Mas il 26 aprile del 1945 in piazzale Fiume a Milano, Junio Valerio Borghese fu preso in consegna dalla polizia partigiana. In seguito, l’11 maggio fu trasferito a Roma, dove trascorse un breve periodo prima di essere ufficialmente arrestato dalle autorità americane il 19 maggio per essere trasferito nel carcere di Cinecittà. Rilasciato in ottobre, venne nuovamente arrestato dalle autorità italiane e trasferito da un luogo di detenzione all’altro, in attesa dell’inizio del processo. Il 17 febbraio del 1949, ritenuto colpevole solo del reato di collaborazionismo con i tedeschi, venne formalmente condannato a dodici anni di detenzione ma, in seguito all’applicazione di una serie di condoni e riduzioni di pena, fu subito scarcerato. Nel dopoguerra Junio Valerio Borghese aderì al Movimento Sociale Italiano, di cui fu nominato presidente onorario nel 1951. Inizialmente appoggiò Giorgio Almirante, poi abbandonò il partito, che giudicava troppo debole, si avvicinò alla destra extraparlamentare e nel settembre del 1968 fondò il Fronte Nazionale. Intanto nel 1963, aveva ottenuto l’incarico puramente onorario di presidente del Banco di Credito Commerciale e Industriale. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970 promosse un colpo di stato, avviato e poi interrotto, con la collaborazione di altri dirigenti del Fronte Nazionale, paramilitari appartenenti a formazioni dell’estrema destra e di numerosi alti ufficiali delle forze armate e funzionari ministeriali. In seguito al fallimento del golpe, Junio Valerio Borghese si rifugiò in Spagna dove, non fidandosi della giustizia italiana che nel 1973 revocò l’ordine di cattura, rimase fino alla morte, avvenuta in circostanze sospette a Cadice, il 26 agosto del 1974. Lo stesso anno Junio Valerio Borghese era stato in Cile con Stefano Delle Chiaie, per incontrare il Generale Augusto Pinochet e il capo della polizia segreta cilena, Jorge Carrasco. Fu sepolto nella cappella di famiglia, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma. www.libero-mente.blogspot.com libero-mente@libero.it carminecetro@inwind.it

ETTORE MUTI

24 Agosto 1943 – In ricordo di Ettore Muti. Nacque a Ravenna il 22 maggio del 1902, figlio di una casalinga e di un impiegato dell’anagrafe, all’età di tredici fu espulso da tutte le scuole del Regno per aver colpito a pugni un professore. Non si scompone molto per questa sanzione ed a quattordici anni fuggì di casa per arruolarsi come volontario nella Prima Guerra Mondiale, ma i carabinieri lo respinsero. L’anno seguente ritentò, riuscendo ad entrare negli Arditi. Al fronte si distinse per l’audacia e le imprese spericolate compiute. Si rese famoso quando il reparto di ottocento uomini al quale apparteneva fu mandato a formare una testa di ponte sulla riva di un fiume da attraversare, il gruppo riuscì nell’impresa ma, all’arrivo dei rinforzi, degli ottocento uomini iniziali rimasero soltanto ventitre, tra i quali Ettore Muti. Fu perciò proposto per la Medaglia d’Oro al Valor Militare, ma Ettore Muti rifiutò poiché sotto falso nome in quanto minorenne. I superiori insospettiti lo rispediranno a casa dopo averne verificato la vera identità. Gabriele D’Annunzio coniò per lui l’appellativo di «Gim dagli occhi verdi» durante l’Impresa di Fiume, alla quale Ettore Muti partecipò con entusiasmo. Durante l’esperienza fiumana incontrò Benito Mussolini, del quale rimane subito affascinato. Rientrato da Fiume, Ettore Muti entrò a far parte dei Fasci di Combattimento, comandando diverse azioni e subendo alcuni arresti. Il 29 ottobre del 1922 fu alla testa dei fascisti che occuparono la Prefettura di Ravenna, durante le operazioni svoltesi sul territorio nazionale contemporaneamente alla Marcia su Roma. Con l’istituzionalizzazione delle squadre d’azione, Ettore Muti iniziò la carriera nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, corpo creato per inquadrare le squadre fasciste. Nel 1923 fu comandante della coorte di Ravenna e nel 1925 divenne Console. La sua vita fu sempre spensierata ed irrequieta: organizzava feste, frequentava belle donne, guidava auto sportive, sfrecciava con la sua Harley Davidson nelle campagne romagnole e romane. Nel settembre 1926 si sposò con Fernanda Mazzotti, figlia di un banchiere. Nel 1929 nacque l’unica figlia, Diana. Il 13 settembre del 1927 Ettore Muti subì un attentato nella piazza principale di Ravenna. Un bracciante, Lorenzo Massaroli, gli sparò due volte al braccio e all’inguine. L’attentatore fu ucciso sul posto dal federale Renzo Morigi. Dopo una degenza in ospedale, Ettore Muti, fu trasferito a Trieste dove comandò la terza legione della milizia portuale e conobbe il Duca Amedeo d’Aosta, che lo convinse ad entrare nella neonata Regia Aeronautica. Non integrandosi perfettamente a Trieste ed entusiasmatosi per la nuova avventura, accettò l’offerta di buon grado. L’arma azzurra fu la svolta decisiva. Ettore Muti si appassionò subito del volo e, pur di entrare in aeronautica, accettò il declassamento al grado di Tenente. Durante la guerra d’Etiopia si mise subito in luce, nonostante l’assenza di aviazione avversaria, ricevendo due Medaglie d’Argento. Nelle fasi finali del conflitto entrò nella squadriglia Disperata con Galeazzo Ciano, Roberto Farinacci ed Alessandro Pavolini. Nel 1936 tornò in Italia accolto da eroe, ma partì nuovamente poco dopo per partecipare, con lo pseudonimo di “Gim Valeri”, alla Guerra di Spagna. Nel conflitto guidò la sua squadriglia bombardando i porti delle città controllate dai repubblicani. Per queste missioni fu decorato con varie Medaglie d’Argento e, nel 1938, con una Medaglia d’Oro. Dalla Spagna tornò con il soprannome di battaglia di “Cid alato” e con l’ulteriore onorificenza dell’Ordine Militare di Savoia. Nel 1939 partecipò all’Invasione dell’Albania al comando di truppe motorizzate e lì, nonostante la scarsa opposizione, ricevette un’altra Medaglia che ottenendo la definizione di “il più bel petto d’Italia”. Tornato dall’Albania, divenne, su proposta di Galeazzo Ciano, Segretario del Partito Nazionale Fascista. In quella veste, pur godendo di grandi poteri, non si trovò a suo agio e fu inviato al fronte con il grado di Tenente Colonnello. Combatté prima in Francia e poi nei cieli d’Inghilterra con grande valore. Nell’estate del 1943 entrò nel piccolo Servizio Informazioni Aeronautica, un servizio segreto militare interno all’arma. Il 25 luglio, giorno della caduta di Benito Mussolini, Ettore Muti si trovava in Spagna per cercare di recuperare per conto del Servizio Informazioni Aeronautica un radar da un aereo americano precipitato. Rientrò a Roma il 27 luglio per ritirarsi in una villetta presa in affitto a Fregene, in via della Palombina dodici. Il 10 agosto un rapporto dei carabinieri inviato a Badoglio indicava in Ettore Muti il comandante o almeno uno dei partecipanti ad un progetto di insurrezione per la restituzione a Benito Mussolini della guida della nazione. La notte tra il 23 e il 24 agosto del 1943 il Tenente dei carabinieri Taddei si presentò presso la dimora Muti con una decina di uomini per l’arresto. Durante il trasporto in caserma, dal bosco furono sparati alcuni colpi di fucile colpendo a morte proprio Ettore Muti. L’episodio non fu mai chiarito e nemmeno chi sparò. Cosa strana l’unico ad essere raggiunto dai colpi fu Ettore Muti, il cui berretto, recuperato dalla famiglia, recava due fori di proiettile sparati a distanza ravvicinata: uno sulla parte posteriore, in corrispondenza della nuca, l’altro davanti, che attraversa la visiera. Diverse altre circostanze confermarono la tesi dell’esecuzione politica del personaggio scomodo, definito da Badoglio “una minaccia” in una lettera spedita poco prima, il 20 agosto del 1943, al Capo della Polizia Carmine Senise. Badoglio ammise di aver scritto il biglietto, ma sostenne che non fu mai recapitato. Dopo l’armistizio la figura di Ettore Muti fu ampiamente celebrata nella Repubblica Sociale Italiana e a lui furono intitolate: la Squadra di Bombardamento Ettore Muti, reparto dell’Aviazione Nazionale Repubblicana, che effettuò solo una limitata attività addestrativa; il battaglione Ettore Muti della Brigata Nera Mobile Achille Corrao, nel ravennate e infine la Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, corpo costituitosi a Milano il 14 settembre del 1943 e impegnato principalmente in attività di repressione della Resistenza partigiana. Fu seppellito nel cimitero di Ravenna. Ancora oggi Ettore Muti detiene il record mondiale di ore di volo in guerra e quello italiano per le medaglie conquistate in azioni di guerra. www.libero-mente.blogspot.com libero-mente@libero.it carminecetro@inwind.it

sabato 11 agosto 2012

10 agosto 1944 in Piazzale Loreto: tragica rappresaglia ad un vile attentato terroristico comunista.

Ogni anno i comunisti ricordano i loro 15 compagni partigiani, detenuti nel carcere di San Vittore, fucilati il 10 agosto 1944 in Piazzale Loreto. Troviamo assolutamente naturale e giusto che ognuno ricordi ed onori i propri caduti della guerra civile. Quello che critichiamo e che non possiamo assolutamente accettare è la supina adesione di tutte le istituzioni locali, di quasi tutte le forze politiche (anche di centro-destra) e di tutta la stampa che ignorano o, peggio, fingono di ignorare che quella tragica rappresaglia è stata causata da un vile attentato terroristico dei gappisti comunisti, nel quale morirono 5 soldati tedeschi ma anche 13 innocenti civili italiani che nessuno mai ricorda. I partigiani comunisti misero una bomba sul camion tedesco che distribuiva viveri ai civili italiani e, ovviamente, come loro "eroica consuetudine" (analogamente a Via Rasella), nessuno di questi vili assassini si presentò poi, alle autorità costituite, per evitare la rappresaglia.
LA MENSA DI PROPAGANDA DEL MARESCIALLO “CARLUN” La verità sul perché, la mattina del 10 agosto 1944, quindici antifascisti detenuti a San Vittore (Andrea Esposito, maglierista; Domenico Fiorano, industriale; Umberto Fogagnolo, ingegnere; Giulio Casiraghi, tiratore di gomena; Salvatore Principato, insegnante; Renzo Del Riccio, operaio; Libero Temolo, operaio; Vittorio Gasparini, dottore in legge; Giovanni Galimberti, impiegato; Egidio Mastrodomenico, impiegato; Antonio Bravin, commerciante; Giovanni Colletti, meccanico; Vitale Vertemarchi, Andrea Ragni e Eraldo Pancini) furono condannati a morte assieme ai loro compagni Eugenio Esposito, Guido Busti, Isidoro Milani, Mario Folini, Paolo Radaelli, Ottavio Rapetti, Giovanni Re, Francesco Castelli, Rodolfo Del Vecchio, Giovanni Ferrario e Giuditta Muzzolon è tutt'altra. Perché, mentre Giuditta Muzzolon veniva graziata e per gli altri dieci la pena di morte veniva commutata in "condanna in penitenziario, qualora non si verifichino atti di sabotaggio", i primi quindici furono portati in piazzale Loreto e fucilati? Per un innocuo botto dimostrativo senza vittime ai danni di un autocarro tedesco? No. Il sangue del 10 agosto 1944 era stato provocato da altro sangue sparso 48 ore prima precisamente alle 7,30 dell'8 agosto, al margine della stessa piazza (angolo viale Abruzzi-Loreto) quando una bomba "gappista" (GAP Gruppi di Azione Patriottica, organizzazione terroristica del Partito comunista italiano) era esplosa tra la folla compiendo una strage che era costata la vita a cinque soldati tedeschi e tredici civili italiani fra i quali una donna e tre bambini, rispettivamente di tredici, dodici e cinque anni. Ecco i nomi dei civili italiani che morirono sul colpo nell'attentato gappista o nei giorni successivi, tutti per "ferite multiple da scoppio di ordigno esplosivo": Giuseppe Giudici, 59 anni; Enrico Masnata, Gianfranco Moro, 21 anni; Giuseppe Zanicotti, 27 anni; Amelia Berlese, 49 anni; Ettore Brambilla, 46 anni; Primo Brioschi, 12 anni; Antonio Beltramini, 55 anni; Fino Re, 32 anni; Edoardo Zanini, 30 anni; Gianstefano Zatti, 5 anni; Gianfranco Bargigli, 13 anni; Giovanni Maggioli, di 16 anni. Rimasero inoltre feriti più o meno gravemente: Giorgio Terrana, Letizia Busia, Luigi Catoldi, Maria Ferrari, Ferruccio De Ponti, Luigi Signorini, Alvaro Clerici, Emilio Bodinella, Antonio Moro, Francesco Echinuli, Giuseppe Formora, Gaetano Sperola e Riccardo Milanesi. Dei cinque soldati tedeschi uccisi, i cui nomi non furono annotati nei registri civili italiani, è rimasta memoria solo di un maresciallo di nome Karl, che per la sua mole era stato soprannominato dai milanesi di Porta Venezia "El Carlùn" (il Carlone). Quel nomignolo che Karl, maresciallo di fureria, se l'era guadagnato fermandosi ogni mattina, all'angolo fra viale Abruzzi e piazzale Loreto, con i suoi camions per distribuire alla popolazione verdura, patate e frutta che la "Staffen - Propaganda” acquistava al mercato di Porta Vittoria, aggiungeva agli avanzi delle mense militari e regalava ai milanesi, tutti, a quell'epoca, dannatamente a corto di viveri. Un'operazione di "public relations", si direbbe oggi, intrapresa dalle Forze Armate tedesche nei confronti dei civili e che, dati i tempi di fame, aveva riscosso un successo immediato. Troppo, per la sensibilità antifascista della "GAP" di Milano, comandata da Giovanni Pesce, detto "Visone", tutt'oggi vivente e quindi in grado di ricostruire nei dettagli l'azione che venne decisa e attuata per spezzare il feeling alimentare promosso dalla Wermacht con i milanesi. UNA ININTERROTTA CACCIA ALL’UOMO Il risultato fu che la mattina dell'8 agosto 1944, i terroristi del Partito comunista si mescolarono alla piccola folla che si accalcava come di consueto davanti alle ceste del "Carlùn" e infilarono in una di queste la bomba ad alto potenziale che, poco dopo, avrebbe seminato la strage indiscriminata: 18 morti e 13 feriti, quasi tutti poveracci milanesi. Diciotto morti e tredici feriti innocenti, tutti assolutamente dimenticati, abrogati, cancellati dalla memoria storica, politica e giudiziaria italiana. Come se fossero indegni di ricordo, di pietà, di giustizia. Li ha dimenticati Giovanni Pesce detto “Visoni”, “medaglia d’oro al valor partigiano", il quale nei libri da lui scritti sulla sua militanza gappista non ha mai raccontato questa azione che pure non è di poco conto (18 morti e 13 feriti in un colpo solo e senza subire perdite rappresentano un risultato ragguardevole); li ha ignorati, a quel che sembra, il procuratore militare Pier Paolo Rivello riaprendo il caso Saevecke; li ignorano L'Unità, l'Ulivo e Rifondazione comunista nelle loro rievocazioni e mozioni; li ignora persino l'amministrazione comunale di Milano (di centro-destra) che avalla senza fiatare la mutilazione della verità storica, con l'abituale viltà, sul suo periodico d'informazione e nei suoi atti politici. E se, ancora dopo 53 anni, tutti ignorano (o vogliono ignorare), perfino nella sua tragica essenzialità, la strage gappista indissolubilmente legata alla fucilazione del 10 agosto 1944, figuriamoci se qualcuno ricorda ciò che accadde fra il massacro e la rappresaglia. Eppure, in quelle ore disperate, mentre la gestione dei rapporti fra militari tedeschi e popolazione passava dalle "public relations" della Staffen-Propaganda e del defunto maresciallo Karl, alla Gestapo del capitano Saevecke, si impegnò un braccio di ferro durissimo fra le autorità fasciste, contrarie alla ritorsione, e i militari tedeschi inferociti che non volevano sentire ragione. Si oppose il prefetto Piero Parini, che arrivò a minacciare le dimissioni; si oppose il federale Vincenzo Costa; si oppose Mussolini, intervenendo direttamente sul maresciallo Kesselring e su Hitler. La prova è, tra l'altro, negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa il quale, nel suo diario ("Ultimo federale", Il Mulino, 1997) ricorda: "Alle 14 (del 9 agosto, ndr) mi trovavo nell'ufficio dei capo della provincia quando arrivò una nuova telefonata del duce; abbassato il ricevitore, Parini mi permise di ascoltare la voce inconfondibile del capo. Tra l’altro egli disse: “il maresciallo Kesserling ha le sue valide ragioni; ogni giorno nel Nord soldati o ufficiali tedeschi vengono proditoriamente assassinati... Ha deciso di attuare la rappresaglia. Ma sono riuscito a ridurre a dieci le vittime... Ho interessato il Fhurer: spero ancora””. Proprio mentre le autorità fasciste e i militari tedeschi si contendevano le vite degli ostaggi appese a un filo, i gappisti milanesi colpirono di nuovo. Anche questo è stato dimenticato. Alle 13 del 9 agosto 1944 un terrorista in bicicletta, armato di pistola, fulminò con un colpo alla nuca, davanti alla porta di casa, in via Juvara 3, il capitano della Milizia Ferroviaria, Marcello Mariani, sposato con quattro figli. Mentre l'uomo agonizzava nel suo sangue, un secondo gappista, di copertura, ferì a revolverate Luigi Leoni, della brigata nera "Aldo Resega", che era sopraggiunto e si era gettato all'inseguimento del primo. L'uccisione di Mariani fu il fatto che decise la sorte dei quindici sventurati rinchiusi a San Vittore. Fra l'ottobre 1943 e il novembre 1944 i gappisti milanesi uccisero 103 fascisti in agguati come quello di via Juvara. Il fondatore della "Ia GAP", Egisto Rubini, catturato a Sesto San Giovanni alla fine di febbraio 1944, si suicidò nel carcere di San Vittore nel marzo successivo per non tradire i suoi compagni sotto tortura. “Medaglia d’oro alla memoria”. http://www.italia-rsi.org/chivolleguerracivile/fucilazioneloreto.htm
Credo sia noto a tutti che a Milano, il luogo di Piazzale Loreto, é storicamente (e aggiungerei anche tristemente) legato ai fatti di fine Aprile1945, quando divenne quadro della macabra esposizione dei corpi di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di alcuni gerarchi fascisti. Non a tutti é noto peró, che quei corpi furono esposti a Piazzale Loreto, come risposta ad un’altra esecuzione, avvenuta diversi mesi prima in quella stessa piazza, nella quale vennero giustiziati per rappresaglia alcuni partigiani comunisti. Ma in conseguenza di quali fatti, questi uomini divennero vittime della suddetta rappresaglia ? MILANO, 10 Agosto1944. 15 partigiani detenuti nel carcere di San Vittore, tali Andrea Esposito , Domenico Fiorano, Giulio Casiraghi, Umberto Fogagnolo, Salvatore Principato, Renzo Del Riccio, Libero Temolo, Vittorio Gasparini, Antonio Bravin, Egidio Mastrodomenico, Giovanni Galimberti, Vitale Vertemarchi, Giovanni Colletti, Andrea Ragni ed Eraldo Pancini, furono condannati a morte. Avrebbero dovuto subire la stessa sorte altri 11 loro compagni che erano stati catturati; i nomi di questi ultimi erano, Guido Busti , Isidoro Milani, Mario Folini, Paolo Radaelli, Eugenio Esposito, Ottavio Rapetti, Giovanni Re, Francesco Castelli, Rodolfo Del Vecchio, Giovanni Ferrario e Giuditta Muzzolon. Il motivo della rappresaglia fu la giusta risposta ad un attentato partigiano che, come tutti gli assassinii consumati dai partigiani comunisti, causò morti tra la popolazione civile, confermando ancora una volta il grado di bassezza e di infamia che contraddistinse sempre le terroristiche azioni partigiane. La solita gentaglia antifascista ha avuto il coraggio di dire e addirittura la sfrontatezza di scrivere in qualche libro, che la fucilazione di quei partigiani fu la conseguenza di una scellerata rappresaglia, attuata in risposta ad un innocuo botto dimostrativo ai danni di un autocarro tedesco che a dire di “alcuni” non causò nemmeno vittime. Sembrerebbe retorico ripeterlo, ma anche questo triste avvenimento fa risaltare con quanta naturalezza gli antifascisti usino la menzogna per distorcere la realtá dei fatti, per infamare, accusare e screditare il Fascismo. Adesso vedremo invece, quali furono i reali avvenimenti che portarono alla fucilazione di quegli attivisti antifascisti eseguita quel 10 Agosto a Milano, a Piazzale Loreto. MILANO, 8 Agosto 1944 ( quindi, 48 ore prima della suddetta fucilazione) Ore 07,30,…. nell’angolo che Piazzale Loreto forma con Viale Abruzzi , una bomba nascosta dai partigiani gappisti, esplode tra una piccola folla; in quel posto staziona, come ogni mattina, un autocarro tedesco che distribuisce gratuitamente viveri per la popolazione della zona e soprattutto, latte per i bambini. Rimangono uccisi 5 soldati tedeschi e 13 civili italiani, tra i quali una donna, 3 ragazzini rispettivamente di 16, 13, 12 anni e un bimbo che ne aveva appena 5. I civili Italiani uccisi si chiamavano: Giuseppe Giudici 59 anni; Enrico Masnata e Gianfranco Moro entrambe di 21 anni, Giuseppe Manicotti 27 anni, Amelia Berlese 49 anni, Ettore Brambilla 46 anni, Antonio Beltramini 55 anni; Fino Re 32 anni, Edoardo Zanini, 30 anni; i ragazzini si chiamavano, Primo Brioschi anni 12; Gianfranco Barbigli di anni 13 e Giovanni Maggioli di 16, aveva appena 5 anni il piccolo Gianstefano Zatti. L’Attentato causó anche numerosi feriti più o meno gravi; essi erano: Giorgio Terrana, Letizia Busia, Luigi Catoldi, Maria Ferrari, Ferruccio De Ponti, Luigi Signorini, Alvaro Clerici, Emilio Bodinella, Antonio Moro, Francesco Echinuli, Giuseppe Formora, Gaetano Sperola e Riccardo Milanesi. I nomi dei cinque soldati tedeschi uccisi non furono annotati nei registri civili italiani, ma è rimasto vivo il ricordo di uno di loro, un maresciallo del quale è rimasto solo il nome… Karl, che per la sua mole era stato bonariamente soprannominato dai milanesi di Porta Venezia, “El Carlùn”…(il Carlone). Come mai “El Carlùn”, il soldato tedesco che aveva ricevuto questo nomignolo, era tanto conosciuto e ben voluto? Karl era un maresciallo di fureria che si occupava alla distribuzione di quei viveri, per cui ogni mattina, assieme ad altri suoi commilitoni, si fermava proprio all’angolo fra Viale Abruzzi e Piazzale Loreto con i suoi autocarri e distribuiva alla popolazione qualcosa da mangiare e soprattutto latte per i bambini; latte che la “Staffen-Propaganda” acquistava al mercato di Porta Vittoria, lo aggiungeva a ció che rimaneva nelle mense militari e portava il tutto ai milanesi. “Questo anziano maresciallo tedesco, tanto apprezzato e ben voluto, si era guadagnato quel bonario nomignolo, non tanto perché era addetto alla distribuzione dei viveri alla popolazione milanese, ma perché, spinto esclusivamente dal senso di umanitá, quando poteva, (ció significa a titolo personale) con un piccolo camion faceva il giro delle campagne limitrofe alla cittá e si riforniva di un po’ di latte; finito il giro di raccolta, rientrava in cittá, si parcheggiava come sempre, all’angolo fra Piazzale Loreto e viale Abruzzi e qui, veniva subito attorniato da padri e madri che si dividevano quel latte, con quella fratellanza che proviene dalla comune disgrazia“.(quanto riportiamo qui scritto in corsivo, è stato raccontato dallo storico Franco Bandini. - Il Giornale, 1° settembre 1996) Un intervento umanitario di non poco valore, organizzato da coloro che una grande massa di vigliacchi additano come truppe occupanti; un’iniziativa attuata in un momento in cui “tutti” sono regolarmente a corto di viveri. Un’operazione di “public relations”, diremmo oggi, curata dalle Forze Armate Tedesche nei confronti dei civili che, visto il particolare periodo, aveva riscosso un successo immediato. Una operazione che aveva il solo scopo di aiutare la popolazione e far cosí comprendere ai civili, che i tedeschi non erano quei mostri che certa gentaglia voleva far credere. Ecco il vero ed unico motivo che fece decidere i partigiani ad organizzare quell’attentato; nulla che fosse minimamente legato ad una qualsiasi attivitá militare (anche perché, come ho giá avuto modo di dire in altri miei articoli, i partigiani non compirono mai azioni veramente militari, ma soltanto terroristiche) dunque niente che avesse a che fare col patriottismo o altri motivi di una certa “nobilta” d’animo o di una certa elevazione morale, sentimenti che sono inconciliabili con l’essenza stessa dell’antifascismo comunista. Il motivo che portó allo stragismo partigiano era lo stesso di sempre, terrorizzare la popolazione e renderla nemica o comunque tenerla distante dei tedeschi e dei fascisti, un obiettivo che si puó assimilare solo ad una matrice ideologica sporca e innaturale ….quale è quella comunista. Cosí la mattina dell’8 agosto 1944, i terroristi partigiani si mescolarono alla piccola folla affamata, che si accalcava come di consueto davanti al camioncino del “Carlùn”, posero sul sedile di guida del camioncino una bomba ad alto potenziale che poco dopo, nell’esplosione seminó indiscriminatamente la morte, uccidendo in maggioranza civili milanesi. Una strage di povera gente innocente, per l’esattezza 18 morti e 13 feriti, tutti assolutamente dimenticati, abrogati, cancellati dalla memoria storica, politica e giudiziaria italiana; come se fossero indegni di ricordo, di pietà, e soprattutto di giustizia. Non ne ha mai fatto alcuna menzione Giovanni Pesce detto “Visone”, “medaglia d’oro al valor partigiano“, (che razza di volgare riconoscimento!!) il quale, nei libri da lui scritti sulla sua militanza gappista, non ha mai raccontato questa azione che pure ha avuto un bilancio in vite umane molto pesante; questo mascalzone, che ha avuto pure il barbaro coraggio di prendersi una medaglia, (che in realtá rappresenta null’altro che la misura della sua infame e miserabile condotta), ha preferito non riportare. Li hanno sempre volutamente ignorati (…mi chiedo come potrebbe essere altrimenti!?) i comunisti appartenenti ai vari schieramenti di sinistra come, L’Unità, l’Ulivo e Rifondazione comunista, in tutte le loro rievocazioni storiche (ma sarebbe opportuno dire “politiche”). Li ignora tutt’oggi persino l’amministrazione comunale di Milano (di centro-destra) che avalla senza fiatare la mutilazione della verità storica, con gli abituali e colpevoli silenzi. Insomma, in un’Italia caduta in mano ai criminali appartenuti alle bande partigiane sembrerebbe del tutto naturale che le vittime di questa ennesima strage siano stati completamente ignorati persino da coloro che hanno il dovere di amministrare la giustizia, infatti il procuratore militare Pier Paolo Rivello, colui che riaprí il caso Saevecke (leggerete poco piú avanti chi era Theodor Saevecke) si è ben guardato dal menzionare questo fatto di sangue. E se ancora, dopo 65 anni tutti ignorano (moltissimi volontariamente) questa strage gappista, causa della rappresaglia che culminerá con la fucilazione del 10 agosto 1944, figuriamoci se qualcuno, guardandosi bene dal raccontare, parla di cosa che accadde in quelle 48 ore intercorse tra il massacro di quegli innocenti e la rappresaglia. In quelle ore disperate, mentre la gestione dei rapporti fra militari tedeschi e popolazione passava dalle “public relations” della Staffen- Propaganda del defunto maresciallo Karl, alla Gestapo del capitano Saevecke, per fare una “pubblica rappresaglia“, si diede il via a un braccio di ferro durissimo fra le autorità fasciste che, pur consapevoli della legittimitá tedesca nel volere approntare una ritorsione, erano tuttavia contrarie alla rappresaglia e i militari tedeschi che inferociti, invece non volevano sentire ragione. Alla rappresaglia si oppose, molto animatamente, il prefetto Piero Parini, che arrivò a minacciare le dimissioni; si oppose il federale Vincenzo Costa; si oppose lo stesso Mussolini che intervenne direttamente sul maresciallo Kesselring e telefonó di persona, direttamente a Hitler. La prova di quanto asserisco si trova negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa il quale, nel suo libro-diario (”Ultimo federale“, Il Mulino, 1997) ricorda: “Alle 14 (del 9 agosto, ndr) mi trovavo nell’ufficio del capo della provincia quando arrivò una nuova telefonata del Duce; abbassato il ricevitore, Parini mi permise di ascoltare la voce inconfondibile del “Capo”. Tra l’altro egli disse: “il maresciallo Kesselring ha le sue valide ragioni; ogni giorno nel Nord soldati o ufficiali tedeschi vengono proditoriamente assassinati… Ha deciso di attuare la rappresaglia. Ma sono riuscito a ridurre a dieci le vittime… Ho interessato il Führer e spero ancora”. Mentre le autorità fasciste e i militari tedeschi si contendevano le vite degli ostaggi, appese a un filo, i gappisti milanesi, non contenti della strage provocata, colpirono di nuovo. Alle 13 del giorno dopo l’attentato, quindi il 9 agosto 1944, un terrorista in bicicletta, armato di pistola, uccise davanti alla porta di casa, in via Juvara 3, sparandogli a bruciapelo un colpo alla nuca, il Capitano della Milizia Ferroviaria, Marcello Mariani. Il Capitano Mariani era sposato e aveva quattro figli; mentre l’uomo agonizzava nel suo sangue, un secondo gappista, posto a copertura, ferì a revolverate Luigi Leoni, appartenente alla brigata nera “Aldo Resega“, che era sopraggiunto sul luogo del delitto e si era gettato all’inseguimento dell’uccisore del Capitano Mariani. Questi altri attentati, avendo raggiunto dei militari italiani, non compromisero la trattativa intrapresa con i tedeschi, che tendeva a evitare… o quanto meno minimizzare il numero di persone da fucilare per rappresaglia. Subito dopo peró, a distanza di qualche ora ci fu un altro attentato ai danni di un autocarro che portava dei militari tedeschi che, pur non avendo fatto vittime, rappresentó la classica “goccia che fa traboccare il vaso”, diventando l’elemento che segnó la sorte di quegli sventurati rinchiusi a San Vittore. Le autoritá italiane, che fino a quel momento avevano nutrito la concreta speranza di salvare quei 15 uomini, vedono cosí cadere ogni trattativa con i tedeschi, che il giorno dopo portano i prigionieri a Piazzale Loreto e li fucilano. Nessuno oserá toccarli per non rischiare di essere accusati di connivenza con i partigiani. Adesso….a Piazzale Loreto non c’e più “El Carlùn“ a portare viveri e aiuti alla popolazione, ci sono solo i cadaveri di 15 uomini passati per le armi e abbandonati sul selciato. Questi furono i veri fatti che, condurranno alla macabra esposizione del Capo del Fascismo e degli altri a Piazzale Loreto; un atto criminale, vergognoso e infame, un atto che testimonia, (qualora fosse ancora necessario), l’essenza diabolica e malvagia di cui è intrisa l’ideologia comunista. Tenendo fede alle loro abitudini sanguinarie, con questo ennesimo atto di barbarie i partigiani comunisti causarono una tragedia che complessivamente, tra l’ 8 e il 10 agosto 1944, costó la vita a 34 persone e il ferimento di altre 14. Qualcuno di voi si è mai chiesto se l’aver causato la morte di tanti innocenti, in questa come in altre innumerevoli stragi, serví a qualcosa? Portó un qualche risultato positivo a coloro che ne avevano bisogno, cioè alla popolazione? In buona sostanza, con la lunghissima serie di attentati terroristici che causó tanti morti, cosa si prefiggevano i partigiani comunisti? Cosa si prefigge chi uccide solo per il gusto di uccidere e per fanatismo ideologico? Nulla, assolutamente nulla….LA MORTE È FINE A SE STESSA!! Ballerino Vincenzo http://www.ilduce.net/piazzaleloreto.htm