mercoledì 31 ottobre 2012

martedì 30 ottobre 2012

Donne Fasciste.

“Storia di Piera e delle altre squadriste” 28 ottobre, 2012 Di Luciano Garibaldi Anche se ben pochi lo sanno, assieme ai centomila squadristi che parteciparono alla marcia su Roma, il 28 ottobre 1922, c’erano venti donne. La loro comandante era una ragazza toscana, Piera Fondelli, in seguito, dopo le nozze, contessa Piera Gatteschi Fondelli (1902-1985). Raccolsi il suo memoriale nel 1985 e lo pubblicai nel libro “La soldatesse di Mussolini” (Mursia), con il quale, grazie alla sua preziosa testimonianza, potei ricostruire le vicende delle Ausiliarie della Rsi, di cui la contessa Gatteschi Fondelli sarà comandante con il grado di Generale di Brigata. «Avevo 20 anni», mi raccontò Piera Gatteschi Fondelli, «e la camicia nera e il fez me li ero confezionati in casa, a Roma, con l’aiuto della mamma, che, alla fine, mi aveva appuntato sulla manica e sul berretto due bei gradi dorati: appunto le insegne di “decurione” della “Squadra d’onore di scorta al gagliardetto”. Cosi si chiamava il nostro gruppo. Fino all’età di 10 anni Piera visse a Greve in Chianti. Poi alcune amiche senesi della mamma, che si erano stabilite a Roma con le rispettive famiglie, convinsero la signora a trasferirsi nella capitale. «Venne il 4 novembre 1918 e i nostri amici, quelli che si erano salvati, tornarono a casa, con l’animo gonfio d’orgoglio per il dovere compiuto e la vittoria riportata sugli austriaci. Ma le aggressioni agli ufficiali erano all’ordine del giorno. I socialisti (ma noi in casa li chiamavamo “i bolscevichi”) bloccavano la città con scioperi, cortei e violenze. Capitava che su un tram viaggiasse un prete, o un ufficiale. Allora la vettura veniva fatta fermare e i malcapitati costretti a scendere tra gli sputi e gli insulti. Episodi che mi indignavano, per cui, col permesso della mamma, andavo anch’io alle manifestazioni di piazza e ai cortei dei nazionalisti e dei reduci. Bottai e gli altri avevano costituito il “Fascio di combattimento” di Roma, con sede in via dei Greci, poi in via Laurina. Mi iscrissi il 23 marzo 1921. Con me, un’altra ragazza, mia compagna all’Istituto di Belle Arti, Ines Donati, che, durante gli scioperi degli spazzini, scopava le strade del centro, circondata dai ragazzi del Fascio, e guai a chi osava metterle le mani addosso. Intanto, il gruppetto delle ragazze fasciste si era ingrossato. Ormai eravamo una decina e andavamo in sede cantando “All’armi, siam fascisti”, nel tempo in cui le ragazze della nostra età cantavano “Creola, dalla bruna aureola”». Per quelle ragazze in camicia nera, il «battesimo del fuoco» avvenne a San Lorenzo, durante la solenne cerimonia funebre per la traslazione dei resti di Enrico Toti, l’eroe del bersaglieri che, durante la guerra, aveva gettato la stampella oltre la trincea, addosso al nemico. «La piazza», riprese a raccontarmi Piera, «era piena di reduci e di fascisti, quando, dalle finestre circostanti, i “rossi” aprirono il fuoco con pistole e moschetti. Le pallottole fischiavano da ogni parte, molti caddero a terra feriti. Eravamo una ventIna di ragazze e non ci sbandammo, ma organizzammo subito i soccorsi. Questo coraggio che dimostrammo, disarmate, come sempre eravamo state, ci valse l’ammirazione degli uomini. E fu così che, quando i fascisti romani partirono per il congresso di Napoli. il 19 ottobre 1922, ottenemmo di parteciparvi anche noi. Partimmo in treno. Sulle camicie nere indossavamo mantelli grigioverdi. Mussolini pronunciò il discorso del 24 in piazza del Plebiscito quando disse: «Vi giuro, vi prometto che prenderemo il potere. O ce lo daranno, o ce lo prenderemo». «La mattina dopo, rientrammo a Roma in treno. Dovunque passavamo, erano applausi. I giornali non parlavano che dei drammatici avvenimenti in corso, le colonne erano già in marcia verso la capitale e la gente. che ormai aveva capito come sarebbero andate le cose, si preparava a saltare sul carro del vincitore. Gli ordini che avevamo ricevuto erano precisi: con le mie amiche, avrei dovuto organizzare i posti di pronto soccorso in vari punti della capitale, nella previsione di scontri sanguinosi». In effetti, si dava per certo che l’Esercito avrebbe ricevuto l’ordine di sbarrare la strada ai fascisti. «Quasi stentavamo a renderci conto di come il Paese, il Re, l’Esercito, i Prefetti, insomma tutta l’Italia si fosse consegnata a noi, un pugno di uomini e, sia pure in piccolissima percentuale, di donne, decisi a tutto pur di riportare l’ordine nelle strade. nelle scuole, nelle fabbriche». Passati quei giorni «giunse l’ordine di smobilitare e noi ragazze della “Squadra d’onore di scorta al gagliardetto”, disciplinate, e senza far storie, riponemmo la camicia nera nell’armadio e tornammo a mettere le gonne che, secondo la moda, andavano facendosi sempre piu corte. Piu tardi saremmo tornate in divisa, Ma questa è un’altra storia». Piera Gatteschi Fondelli riposa nella tomba di famiglia, a Greve in Chianti. Fonte: Secolo d’Italia

martedì 23 ottobre 2012

I Parà di Monza ricordano i Leoni di El Alamein.

EL ALAMEIN NEL RACCONTO DEI LEONI DELLA FOLGORE E DELLO STILISTA MISSONI Monza, 22 ottobre, sala Maddalena gremita di baschi amaranti e di cittadini. La serata, organizzata da ASD Paracadutisti Milano tra cui molti congedati della Folgore e dall’Associazione Culturale Fare Occidente, ha voluto ricordare il 70° della Battaglia di El Alamein dalla viva voce di alcuni veterani. Ottavio Missoni stilista conosciuto in tutto il mondo classe 1921, il STen della Divisione Folgore Giovanni Peroncini classe 1921 e il paracadutista Silvio Rebellato stessa compagnia di Peroncini e anche lui classe 1921. 92 anni portati alla grande Ottavio Missoni ha raccontato una pagina inedita della sua storia personale e della Battaglia, combattente del 65 Reggimento di fanteria della Trieste si è fatto 4 anni di prigionia inglese. “Sono qui per onorare i morti – ha detto Missoni- in una battaglia che sapevamo di perdere”. Parla il paracadutista Rebellato per elogiare il suo comandante, il tenete Peroncini che non ha mai mollato il suo mortaio anzi piuttosto che lasciarlo agli inglesi se lo è caricato in spalla fino alla resa. E Peroncini ,fiero ufficiale della Divisione Folgore. alto una splendida figura di comandante ha ricordato l’impegno e il sacrificio degli uomini Folgore e ha espresso il desiderio di tornare su i luoghi della battaglia eri vedere la sua “buca”. Eroi di ieri e eroi di oggi, la serata si è chiusa con la presentazione del libro di Gian Micalessin inviato di guerra del Il Giornale “ Afghanistan solo andata” le storia di otto ragazzi in divisa morti per la Patria.

Camerata Alberto Mariantoni: Presente!

A soli 65 anni, ci ha improvvisamente lasciati, il Camerata Prof. Alberto Mariantoni, morto, ieri a Ginevra. Laureato in Scienze Politiche, giornalista e scrittore, inviato speciale, esperto di geopolitica, Medio Oriente, religioni e tradizione classica e romana, docente in diverse università italiane ed internazionali. Da sempre militante della destra radicale europea, stretto collaboratore del Comandante Junio Valerio Borghese, amico della famiglia Mussolini e Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Romana, attivo sostenitore della Falange Cristiano-Maronita libanese e del Fronte Nazionale francese di Jean Marie Le Pen. Da sempre impegnato in difesa della nostra identità culturale e della nostra sovranità nazionale. http://www.abmariantoni.altervista.org/

XXVIII Ottobre 2012: la Marcia continua!

giovedì 18 ottobre 2012

Campo X - 2012: Onore ai Caduti della RSI.

Comitato 90° Marcia su Roma.

La X MAS incontra lo Stato Maggiore della Marina.

Storico ed importantissimo riconoscimento ufficiale della Associazione Combattenti della Decima Flottiglia MAS, fondata dal suo Comandante M.O. Principe Junio Valerio Borghese, che è stata ricevuta dal Capo di Stato Maggiore della Marina Militare della Repubblica Italiana, Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, al quale è stato consegnato il crest ufficiale del sodalizio, riproducente la gloriosa "X" rosso sangue ed il teschio (già usato da arditi e pirati) con in bocca una rosa rossa.

martedì 16 ottobre 2012

In ricordo di Giorgio Pisanò.

17 Ottobre 1997 – In ricordo di Giorgio Pisanò Nacque il 30 gennaio del 1924 a Ferrara. Il padre, Luigi, di origine pugliese San Vito dei Normanni, laureato in giurisprudenza, era un funzionario statale. Negli anni venti, in servizio presso la Prefettura di Ferrara conobbe una ragazza e poco tempo dopo si unirono in matrimonio. Giorgio Pisanò fu il primo di cinque figli. Cresciuto mentre la famiglia si spostava da una città altra, prese il diploma di maturità classica a Taranto durante il periodo bellico. All’età di diciotto anni gli fu affidato il Comando della Compagnia di Pronto Intervento della “Gioventù Italiana del Littorio”, organizzazione giovanile fascista fondata il 29 ottobre del 1937 con lo scopo di accrescere la preparazione spirituale, sportiva e militare dei ragazzi italiani. L’otto settembre del 1943 Giorgio Pisanò si trovava a Pistoia, in Toscana, dove con altri ragazzi organizzò la riapertura della Casa del Fascio e l’occupazione della Caserma Gavinana, abbandonata dai soldati, in attesa di un reparto tedesco. Senza esitazione, aderì alla Repubblica Sociale Italiana, arruolandosi nel battaglione Nuotatori Paracadutisti della Decima Flottiglia Mas e Tenente delle Brigate Nere del Comando Generale, poi decorato con la Croce di Ferro tedesca di prima e seconda classe per le missioni di informazioni e sabotaggio nel territorio italiano occupato dalle truppe alleate. Arrestato dai partigiani il 28 aprile del 1945 a Ponte Valtellina, fu rinchiuso nelle carceri di Sondrio, Milano, Spoleto, Perugia e nei campi di concentramento inglesi di Terni e Rimini dove restò fino al 7 novembre del 1946. Terminata la prigionia, raggiunse la famiglia a Lucino, stremata in seguito all’epurazione del padre. Sempre nello stesso anno, a Como, Giorgio Pisanò, fu tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, diventando il primo Segretario della Federazione. L’anno successivo intraprese la sua grande passione, il giornalismo, coprendo le cariche di redattore e inviato per il giornale “Meridiano d’Italia”, settimanale di destra neofascista, diretto da Franco De Agazio. Le prime ricerche sugli omicidi del dopoguerra compiuti dai partigiani, molti dei quali legati al mistero dell’oro di Dongo. Nel 1951, Giorgio Pisanò fondò l’Associazione Studenti “La Giovane Italia” ricoprendo la carica di primo Presidente. Nel 1954 approdò ad “Oggi”, settimanale fondato da Angelo Rizzoli e diretto da Edilio Rusconi con il compito di raccogliere tutto il materiale fotografico e documentale sulla guerra civile e realizzare una storia a puntate. Nel 1963 fondò il settimanale “Secolo XX” nel quale furono pubblicate notizie controversie e scottanti come quella sulla morte misteriosa del Capo dell’Eni, Enrico Mattei. Nel 1968 fece rivivere il settimanale “Candido”, erede di quello fondato da Giovannino Guareschi che aveva cessato le pubblicazioni nel 1961 e assumendo la carica di direttore fino al 1992. Eletto Senatore della Repubblica per il Movimento Sociale Italiano nel 1972, rimase in carica ininterrottamente per cinque legislature fino al 1992. Membro del Comitato Centrale e della Direzione Nazionale del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Pisanò, ricoprì la carica di Consigliere Comunale nella città di Cortina D’Ampezzo dal 1980 al 1994. Dopo la fuoriuscita dal Movimento Sociale Italiano, nel 1991, fondò e divenne Segretario Nazionale del Movimento “Fascismo e Libertà”. L’unico movimento politico italiano dichiaratamente fascista basato sul pensiero mussoliniano, ponendo come obiettivo principale la realizzazione di una democrazia corporativa. Nel 1995, dopo la svolta di Fiuggi e la definitiva trasformazione del Movimento Sociale Italiano in Alleanza Nazionale, Giorgio Pisanò, decise di associarsi con Pino Rauti nel progetto di conservazione dello storico partito di destra italiana, dando origine alla “Fiamma Tricolore”. Alcuni mesi dopo lasciò la vita politica, complice l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Si spense a Milano il 17 ottobre del 1997, all’età di settantatre anni, dopo un lunga malattia. I solenni funerali si svolsero nella chiesa della Beata Vergine Addolorata, a San Siro. Numerose persone accorsero per rendere omaggio al reduce della Repubblica di Salò. Al passaggio del feretro tutti sugli attenti e braccia alzate. Fu tumulato nel cimitero di famiglia nella città di Ferrara. www.libero-mente.blogspot.com libero-mente@libero.it carminecetro@inwind.it

90° Anniversario della Marcia su Roma.

Pellegrinaggio ANCIS in Spagna.

ASSOCIAZIONE NAZIONALE COMBATTENTI ITALIANI IN SPAGNA-A.N.C.I.S. Viale XXI Aprile, 34 – 00162 Roma – ITALIA tel / fax: 00039 06 86322594 e-mail: Àjhispanicus@yahoo.es; associazione.ancis@libero.it Pellegrinaggio in Spagna per l’anno 2012 L’A.N.C.I.S., con la Fondazione Hispano Latina, organizza l’annuale pellegrinaggio in Spagna, recando con la sua presenza il necessario sostegno alla Spagna Immortale per cui versarono il sangue tante migliaia di Volontari Italiani nella Cruzada 1936 /1939. Programma di massima: 1 NOVEMBRE, OGNISSANTI, GIOVEDÌ, arrivo e adunata a Saragozza la sera presso l’hotel Zaragoza Royal, calle Arzopbispo Domecq; cena e pernottamento. 2 NOVEMBRE, VENERDI, ore 10,30 omaggio nella cripta interna alla cattedrale della Virgen del Pilar al generale Valenzuela, fondatore della legione spagnola, con la hermandad dei legionari di Saragozza; ore 12.00 cerimonia solenne al sacrario di s. Antonio de los torreros dove son sepolti 4.012 caduti nostri e un centinaio della brigata internazionale garibaldi, in stretto ordine alfabetico per disposizione dell’allora capo di governo. Al termine “vino cameratesco” offerto nei locali del sacrario; turismo nella nostra “Cæsar Augusta”. 3 NOVEMBRE, SABATO, compatibilmente con le disponibilità dei frati dell’abbazia, trasferimento al “Valle de los Caidos”, riaperto dopo le intemperanze del calzolaro; visita alla vicina reggia dell’Escorial; cena e pernottamento nella foresteria del Valle; in alternativa, Madrid, hotel Puerta de Toledo. 4 NOVEMBRE, DOMENICA, GIORNO DELLA VITTORIA, h. 11.00 messa solenne al Valle de los Caidos; rancio cameratesco. 5 NOVEMBRE LUNEDI, eventuale visita all’alcazar di Toledo; convivialità con i camerati spagnoli; pernotto a Madrid, hotel Puerta de Toledo. 6 NOVEMBRE, MARTEDI’, cerimonia al consolato d’italia; rientro in patria. il costo si aggirerà intorno ai 500,00 euro, oltre al viaggio; per la prenotazione dei voli l’ANCIS si è convenzionata con l’agenzia di viaggi Privertravel di Michele Iannicola, telefono: 0773.903903 – 335.6102211 – elettroposta: INFO@PRIVERTRAVEL.IT cui gli interessati possono rivolgersi direttamente RECAPITI PER LE ADESIONI: A.N.C.I.S. Viale XXI Aprile, 34 – 00162 Roma tel / fax: 0039 06 86322594 – cell.: 349.5706.302 elettroposte: jhispanicus@yahoo.es; avv.jcgentile@virgilio.it; associazione.ancis@libero.it La segreteria nazionale

venerdì 12 ottobre 2012

Il martirio di Gino Lorenzi, giovane volontario crocefisso dai partigiani comunisti.

Gino Lorenzi, uno dei tanti giovani martiri, uno delle tante vittime sacrificali sull'altare della Patria sconfitta. La colpa imperdonabile, quella di aver combattuto fino all'ultimo giorno una guerra persa. Il sacrificio di Gino e dei suoi tanti camerati doveva servire a festeggiare la vittoria delle fazioni in una Italia democratica e liberata ma inesorabilmete sconfitta e punita impietosamente dal tracotante e superbo nemico. Ecco la breve descrizione dei fatti: A guerra finita il S. Tenente Gino Lorenzi aveva deposto le armi nella cittadina di Oderzo e, con alcuni camerati, si era incamminato verso casa a Bergamo. Giunto a Ponte di Piave, il gruppo fu catturato da una banda di partigiani comunisti e rinchiuso nelle carceri di Breda di Piave. Di qui, nella notte fra il 3 ed il 4 maggio, i prigionieri vennero portati alla Cartiera Burgo di Mignagola ove, dopo aver subito durissime percosse e sevizie inaudite, furono fucilati. Tutti ma non Gino Lorenzi. Ostentava infatti una medaglia religiosa al collo ed alla richiesta di rinnegare la Sua Fede oppose netto rifiuto. Fu approntata una rozza croce legando due tronchi d'albero e i gloriosi "patrioti" Gli dissero che, se non avesse rinnegato la Sua Fede, quella sarebbe stata la Sua fine.Il giovane Ufficiale del Battaglione "M" d'Assalto "Romagna" non tremò né implorò salvezza: "La Croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura ad un Cristiano" si limitò a pronunciare prima che lo inchiodassero. Così morì Gino Lorenzi, chiamato da Dio e dal Destino a divenire un simbolo di suprema dedizione, di insuperato ineffabile sacrificio per la Fede e per la Patria.

mercoledì 10 ottobre 2012

La violenza socialista e l'ignavia liberale spianarono la strada al Fascismo.

L'inerzia dei governi liberali carta vincente del fascismo. I militari, non i capitalisti, spianarono la strada al Duce. Articolo di Ernesto Galli delle Loggia sul Corriere della Sera.
Con questo terzo volume (Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Il Mulino), che esce a più di 45 anni di distanza dal primo, Roberto Vivarelli consegna alla cultura italiana un'opera monumentale, paragonabile solo a quella di Renzo De Felice su Mussolini. E, aggiungendo la sua all'altra - non importano, su alcuni punti, le differenze pure non irrilevanti tra le due -, egli segna la vittoria definitiva del cosiddetto revisionismo su quella che è la questione cruciale della storia italiana del Novecento. Revisionismo è un termine maledetto nel lessico del conformismo ideologico onnipresente, se in realtà esso non volesse dire - come lo stesso autore rivendica - «una delle più elementari esigenze del mestiere» di storico. È giusto comunque adoperarlo per significare come dopo quest'opera nessuno potrà più continuare a sostenere le interpretazioni del fascismo e delle sue cause che pure vanno ancora oggi per la maggiore, tutte in realtà rivolte ad assegnare torti e ragioni secondo le convenienze dell'antifascismo di allora e di poi (esattamente come, dopo l'opera di De Felice, nessuno ha potuto più accreditare l'immagine trucemente macchiettistica del regime che i suoi avversari gli avevano cucito addosso). Naturalmente nessuno che voglia muoversi sul terreno dei fatti e che non sia accecato dal pregiudizio. Resta infatti vero ciò che lo stesso Vivarelli osserva nella prefazione - in polemica con certa imperversante storiografia internazionale, in specie anglosassone, che da noi ha il suo rappresentante in Emilio Gentile - e cioè che la sua opera non varrà certo a far cambiare punto di vista a quegli «studi che discettano di un fenomeno fascista senza confrontarsi affatto con le vicende effettive del movimento di Mussolini e con la storia del Paese in cui quelle vicende si svolsero», riducendone le esperienze a quelle del nazismo tedesco «che con il fascismo italiano avevano in realtà poco a che fare». Roberto Vivarelli «Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma», edita dal Mulino (pp. 544, € 36), Secondo Vivarelli il fascismo non è nato, e neppure si è affermato, come un movimento reazionario di classe sollecitato dagli agrari o tanto meno dagli industriali, come vuole lo stereotipo ancora oggi corrente. L'idea centrale della sua ricostruzione, invece - condotta, così come nei volumi precedenti, su una vastissima documentazione anche di ambito locale -, è che in Italia, tra il 1919 e il 1922, si sia combattuta in realtà una vera e propria guerra civile «tra due opposte passioni politiche», incarnate dai socialisti da un lato e dai fascisti dall'altro: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore. In una simile prospettiva di guerra civile il punto chiave, come è evidente, è l'uscita del conflitto sociale dai binari della legalità; il problema del «chi ha cominciato». E qui una montagna schiacciante di prove vale a mettere sul banco degli accusati il Partito socialista. Per pagine e pagine il lettore s'inoltra in una sorta di interminabile rassegna di quello che è difficile non definire un vero e proprio attacco di demenza politica che in quel dopoguerra colpì i socialisti. Inebriati fino alla forsennatezza dalla rivoluzione leninista, infatti, e non sospettando neppure che con la guerra e la vittoria si apriva una pagina interamente nuova della storia del Paese, dopo il 1918 essi misero in atto due orientamenti suicidi. Da un lato il desiderio di prendersi la rivincita della sconfitta patita nel maggio del 1915 a opera del fronte interventista (il quale però si dà il caso che avesse portato il Paese a un'affermazione storica di cui era impossibile ignorare la portata), e dall'altro l'illusione che in Italia si potesse «fare come la Russia», cioè impadronirsi del potere. A fare da trait d'union tra questi due obiettivi, e da sfondo ideologico alla grande ondata di lotte sociali successive alla lunga compressione bellica, il Partito socialista mise in campo una violentissima predicazione antinazionale e antipatriottica, una martellante propaganda antimilitaristica fin dentro le caserme e ben oltre i limiti del disfattismo; un fiume ininterrotto di minacce di ogni tipo rivolte ai «borghesi», ai «padroni», ai «signori ufficiali». Non erano solo parole (che pure in politica contano e come!), perché ad esse si aggiungevano i fatti: l'appoggio incondizionato agli scioperi più insulsi, alle violenze più inutili, alle agitazioni anche le più distruttive come gli assalti ai negozi; e poi, laddove il potere era nelle mani degli uomini del partito (a cominciare dalle campagne e dai piccoli centri della bassa Lombardia, del Rodigino, dell'Emilia, della Toscana), «uno stillicidio continuo di abusi e di provocazioni». E non solo: dal momento che, scrive Vivarelli, «non corrisponde al vero che i socialisti fossero alieni dalla violenza». Si arrivò al punto, come a Bologna nel 1920, di disporre la chiusura del camposanto nel giorno dei Morti per festeggiare la conquista del municipio; o, come nei comuni del Genovese, di ordinare alle scuole di rimuovere, insieme ai crocefissi, i ritratti dei sovrani, le lapidi in memoria dei caduti in guerra, le corone con nastri tricolori. E infine dovunque prepotenze, più o meno piccole angherie ai «nemici di classe» e illegalità analoghe. Ma tutto questo senza la minima iniziativa politica concreta, nonostante che dal 1919, come si sa, i socialisti, con oltre 150 seggi, fossero il maggior partito presente alla Camera. Il fatto si è, però, che dalla retorica massimalista e rivoluzionaria, dalla fissazione leninista di cui erano tutti prigionieri - salvo forse il solo Turati (sì, tutti: perfino i Baldesi, i Matteotti, i Buozzi, i Montemartini si dicevano ancora nel 1921 a favore dell'adesione al Comintern) - essi si sentivano obbligati a teorizzare come unico fine della propria presenza nelle istituzioni rappresentative il boicottaggio delle medesime. Basti pensare che nella legislatura 1919-21 il gruppo parlamentare socialista non avanzò una sola proposta di legge, non una. E che ancora nell'agosto del 1922 - quando ormai l'organizzazione socialista in intere regioni della Penisola era stata ridotta dallo squadrismo a un mucchio di macerie - un uomo come Claudio Treves, presunto portabandiera del riformismo, affermava alla Camera: «Quando si minaccia il parlamentarismo e si inneggia alla dittatura, noi vi diciamo, o signori, de re vestra agitur . Il regime liberale parlamentare è vostro, non nostro». Un gruppo di fascisti provenienti dal Sud bivaccano in attesa di entrare nella Capitale durante la marcia su Roma (28 ottobre 1922). La vera e massima colpa degli eterogenei governi a maggioranza liberale di quel dopoguerra fu, secondo Vivarelli, di non aver opposto un'energica azione repressiva, come peraltro le leggi consentivano, a questo autentico attacco frontale dei socialisti nei confronti dello Stato nazionale. Ma anzi di aver mantenuto di fronte a un simile attacco, che era rivolto senza mezzi termini alle istituzioni, un'assurda posizione di sostanziale neutralità. Sta qui, direi, il nocciolo interpretativo decisamente nuovo del libro (nuovo almeno per la storiografia d'ispirazione liberaldemocratica, cui il nostro autore appartiene). Il quale spiega questa debolezza/incapacità con il fatto che il fronte liberalcostituzionale si riconosceva ancora largamente nell'antinterventismo di marca giolittiana, a cui di fatto pure il Partito socialista e i cattolici avevano a suo tempo aderito, ed era quindi ideologicamente ed emotivamente restio a rivendicare il valore della guerra e della vittoria. All'antipatriottismo sovversivo socialista, insomma, i liberali e i popolari furono incapaci di opporre un consapevole, ma fermo, patriottismo delle istituzioni. La loro inazione, protrattasi per almeno due anni, produsse non solo un grave e capillare deterioramento dell'ordine pubblico, ma insieme - ciò che era ancora più grave - quella che a molti e in tante occasioni apparve come un'autentica latitanza dello Stato. Fu questa scelta suicida - quasi una replica sul versante liberale di quella compiuta dai socialisti - che finì per scavare un fossato tra la tradizionale classe dirigente e un'opinione pubblica, specie borghese, che per tanta parte si identificava pienamente nello Stato nazionale, tanto più riconoscendosi, dopo la vittoria, nelle ragioni della guerra e nell'esperienza bellica a cui aveva direttamente partecipato. Da qui una paurosa perdita di prestigio e di autorità da parte dei vari governi che si succedettero dal 1919 al '22 - a cominciare da quello di Giolitti stesso -; da qui l'insuperabile mancanza di credibilità e di forza politica comune a tutti. Combattuti ferocemente dai socialisti, non difesi in modo adeguato dai liberali, lo Stato e l'eredità della guerra rimasero in certo senso alla mercé di chiunque avesse la volontà, la capacità e la forza di farsene tutore e rappresentante. Proprio perché mancò la reazione legale, è opinione di Vivarelli, sorse e si affermò quella illegale, cioè il fascismo. Dietro l'origine e il successo del quale, non vi fu dunque nessun particolare interesse di classe, bensì, per l'essenziale, una vasta adesione ideologico-culturale allo Stato nazionale nonché la volontà di difenderne la vittoria del '18. Agrari e industriali vennero solo dopo, a cose fatte o quasi, tanto più che «il carattere distintivo del movimento fascista - leggiamo - sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». La ragione ultima e più vera del successo dei fascisti deve essere vista nel fatto che essi, prendendo atto che la situazione del Paese era ormai quella di una virtuale guerra civile - e cioè che all'uscita dalla legalità da parte dei socialisti poteva contrapporsi solo un'illegalità organizzata, data la «neutralità» del governo - ne trassero le ovvie conseguenze e cominciarono a combattere gli avversari sul loro stesso terreno; e che potendo disporre in una misura enormemente superiore ai loro avversari dei mezzi per vincere (la giovane età, l'esperienza militare, la disciplina, una leadership anche tattica abilissima come quella di Mussolini), alla fine vinsero. Ma non senza avvalersi di una carta decisiva: l'appoggio, fin dall'inizio, delle forze dell'ordine e dell'esercito. Vivarelli contrasta, in modo che a me sembra anche sul piano documentario convincente, la tesi tradizionale che ciò sarebbe stato il frutto di una voluta complicità con il nascente fascismo della classe dirigente liberale. A un'analisi attenta si direbbe che non fu proprio così. In realtà, sostiene il libro, si sarebbe trattato di una sorta di vera e propria sedizione tacita della struttura militare dello Stato, la quale avrebbe di fatto cessato di obbedire agli ordini di contrasto al movimento fascista impartiti dal governo. I quali ordini invece ci furono, energici e ripetuti, sebbene avvolti sempre da un'ambigua genericità (per esempio non fu mai previsto esplicitamente dalle autorità l'uso delle armi contro i fascisti o disposta la messa fuori legge delle squadre), e così furono ancor più destinati a restare elusi o inascoltati. Il fatto è che, avendo mancato di difendere la legalità contro i socialisti, agli occhi delle forze dell'ordine e dell'esercito (e assai probabilmente anche ai propri stessi occhi) i governi liberali avevano perduto qualunque autorità necessaria per ordinarne ora il rispetto contro i fascisti. Dichiarando una specie di neutralità nella guerra civile in atto, senza peraltro avere la forza di reprimere le due parti in lotta, il governo e i partiti costituzionali erano in pratica usciti dal novero degli attori politici; e con ciò avevano segnato la propria fine. Come si vede, è un radicale spostamento d'asse interpretativo quello che questo libro opera rispetto all'immagine del fascismo e delle sue premesse, depositata da sempre nel discorso pubblico italiano. E poiché quell'immagine, come si sa, è in qualche modo alla base di tutta la vita della Repubblica, proprio per ciò esso ci aiuta a capire non poche delle fragilità e delle contraddizioni che ne hanno accompagnato la nascita, e non solo. Ernesto Galli Della Loggia http://www.corriere.it/cultura/12_ottobre_10/galli-della-loggia-inerzia-governi-iberali_539f304e-12d4-11e2-9375-5d5e6dfabc1a.shtml

venerdì 5 ottobre 2012

Manifesto degli Intellettuali Fascisti (1925).

Manifesto degli Intellettuali Fascisti (1925) « Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre. Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione. Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal '19 al '22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all'attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell'ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica. Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall'opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl'individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l'indipendenza e l'unità. Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch'esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del '31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la "Giovane Italia" di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la "Giovane Italia" mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente. Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l'insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l'ammirazione e infine il plauso universale. Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione della sue forze finanziarie e morali. Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scintilla di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni. »

ANAI, UNCRSI e Fiamme Nere nel Comitato per il 90° Anniversario della Marcia su Roma.

L'Associazione Nazionale Arditi d'Italia, la Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana e l'Associazione d'Arma Fiamme Nere fanno ufficialmente parte del Comitato Nazionale d'Onore per il 90° Anniversario della Marcia su Roma.
http://www.marciaresuroma.altervista.org/index.html

giovedì 4 ottobre 2012

martedì 2 ottobre 2012

"L'ultimo poeta armato"

Massimiliano Soldani. "L’ultimo poeta armato: Alessandro Pavolini segretario del P.F.R.". A distanza di anni torna sugli scaffali in un’edizione tanto rinnovata e arricchita da farne quasi un libro completamente nuovo, un classico della storiografia non-conforme dedicato a uno dei personaggi più complessi della storia del Fascismo: Alessandro Pavolini. Il percorso del fascista fiorentino, da vitale organizzatore di cultura a intransigente Segretario del PFR, ha fatto sorgere in questi anni una pubblicistica tesa a individuare un “doppio” Pavolini, diviso fra due metà inconciliabili: l’intellettuale “buono” e il gerarca “cattivo”. Il saggio di Soldani ci restituisce invece l’integralità e la coerenza dell’esperienza pavoliniana, all’insegna della cultura delle idee che diventano azioni. Un unico Pavolini, quindi, che da squadrista, da giornalista, da intellettuale, da gerarca, da soldato perseguirà sempre un unico fine: la rivoluzione continua. Ovvero la lotta permanente del regime mussoliniano contro i suoi nemici, di fuori e di dentro, il rifiuto di conferire al Fascismo il compito di mero restauratore dell’ordine, l’inesausto spirito antiborghese, il progresso sociale senza sosta. È un Fascismo, quello di Pavolini, che non ripone nell’armadio la vecchia camicia nera in vista di una qualche “normalizzazione”, ma che anzi intende perpetuare sia in pace lo spitito irriverente e battagliero delle prime squadre d’azione. Tanto da poter esclamare, agli albori di quella esperienza di fuoco e acciaio che fu la Repubblica Sociale Italiana: «Camerati si ricomincia. Siamo quelli del Ventuno. Lo squadrismo è stato la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta, lo è per sempre». 480 pagine in brossura, formato 15 x 21 cm. Euro 24,00 - DISPONIBILE DAL 2 OTTOBRE - http://www.ritteredizioni.com/