Pubblicato da Admin
il domenica, maggio 19, 2013
di
Mario M. Merlino
Ho davanti a me una fotografia dove si
vede un uomo, con il volto segnato, i capelli folti e bianchi, con il pastrano
militare privo di spalline e gradi e decorazioni. Un volto che racconta di antiche
ed estreme battaglie, di certe vittorie e di inevitabili sconfitte, un volto
severo di chi sa rimanere in piedi tra le rovine, preservare se stesso ed il
proprio mondo interiore di valori. Il volto di un soldato, di come dovrebbe
essere ogni volto di soldato. Alle sue spalle la tenda del prigioniero, la
sabbia del deserto, un cielo grigio e sporco. Ha avanti a sé un microfono:
‘…abbiamo operato virilmente, come abbiamo operato, perché abbiamo creduto che
quella fosse la nostra missione nel supremo agone della Patria, che questo
spirito nostro, agitato e sconvolto, possa trovare l’imperativo morale sul
quale appoggiarsi all’avvenire… Io, vostro Maresciallo, sono presente al campo
e quindi rappresento spiritualmente tutto e tutti; la Patria e la razza’. Asciutto
e sintetico chè a un soldato non si chiede il ben parlare, si chiede, questo
sì, d’essere degno dell’uniforme che indossa in guerra e in pace.
Quest’uomo, questo soldato, che è stato
ricoverato nell’ospedale militare di Algeri ma che, successivamente, ha chiesto
ed ottenuto d’essere rinchiuso dietro i reticolati del 211 Pow Camp per
condividere il comune destino con quei soldati che, come lui, avvertirono il
richiamo dell’Onore, questo soldato è il Maresciallo Rodolfo Graziani.
Sono rientrato questa domenica
pomeriggio da Lecco, grigia e piovosa, dove mi sono immerso – e ricostruito con
il coinvolgimento del cuore – nei luoghi ove si consumò la tragedia culminata
con il massacro dei sedici ufficiali del btg. d’assalto Perugia della G.N.R. e
del btg. Leonessa perché venissero risparmiati i loro centosessanta uomini,
tutti giovanissimi. Ho visto il luogo dell’agguato partigiano e della breve
resistenza, la scuola ove vennero ristretti depredati sottoposti a vessazioni
inenarrabili, lo stadio in cui si consumò l’atto finale, i cadaveri ammucchiati
sotto poche palate di terra, dissepolti e sui loro corpi vi pisciarono sopra ad
estremo ludibrio. E la nuova targa a ricordo dove tutto questo orrore viene
mascherato da atto di guerra legittimo perché i boia trovino riposo nelle loro
comode tombe e tutta la città si lavi la coscienza. Ho proposto il mio libro
Atmosfere in nero, dove narro di questa vicenda e della bella storia, sì, della
bella storia d’amore tra Mila ed Emilio.
Sabato prossimo, 25 maggio, sarò nei
pressi di Frosinone tra i relatori al convegno dedicato appunto al Maresciallo
Rodolfo Graziani, che nacque e trovò sepoltura in terra di Ciociaria. Incontro
doveroso e reso più urgente dal momento che la nuova giunta regionale di
sinistra, di fronte alla crisi dell’occupazione della sanità della viabilità,
ha ritenuto opportuno di tagliare i fondi destinati a completare lo spazio in
via di edificazione a ricordo del Maresciallo Graziani, nel comune di Affile.
Insomma, a quasi settant’anni di distanza dalla fine del secondo conflitto
mondiale, vi è chi ritiene doverosa mantenere la rigida divisione tra vincitori
(i buoni) e vinti (i cattivi). Dalla crisi delle ideologie, simbolicamente
rappresentata dal crollo del muro di Berlino, vi è chi ancora ne fa un uso
strumentale e menzognero per negare l’universalità e atemporalità del valore, i
vincitori (tutti eroi e martiri, capaci di donare libertà e democrazia al
nostro paese, trascurando il supporto della V e VIII Armate alleate) e i vinti
(tutti, va da sé, numericamente insignificanti e tutti torturatori sadici
venduti e asserviti al tedesco invasore).
Ho
davanti a me un’altra fotografia, tratta dall’inserto de Il Secolo d’Italia,
febbraio 1955. Si vede piazza Verdi, una ampia piazza di Roma nei pressi del
quartiere Parioli, riempita da una folla immensa da migliaia e migliaia di
braccia tese da tricolori e labari da un popolo di più generazioni (si parlò di
oltre duecentomila persone) e, portata a braccia, si intravede la bara del
Maresciallo Graziani, dopo la funzione religiosa celebratasi nella chiesa di
San Roberto Bellarmino, la mattina del 13 gennaio. Credo (ma vi tornerò sopra
in un prossimo contributo) quale ultima grandiosa autentica visione del
Fascismo ‘immenso e rosso’. Dopo ci fu ‘il neofascismo’ che non è – e non solo
in senso cronologico e terminologico – il Fascismo (questo va consegnato alla
storia, l’altro alla cronaca, ad esempio). E, proprio sulla sua morte, sul
funerale, su quella manifestazione vorrei incentrare il mio intervento al
convegno del 25 maggio.
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