lunedì 3 febbraio 2014

La Brigata Nera MUSSOLINI di Lucca



DA LUCCA A DONGO
                             
STORIA DELLA 36^ BRIGATA NERA “MUSSOLINI”      
 
http://digilander.libero.it/rsi_analisi/brilucca.htm                                                               
 
LA SITUAZIONE DI LUCCA DOPO L’8 SETTEMBRE 1943
 
Il 10 settembre ci fu l’occupazione militare tedesca della città e della provincia. Subito la sera del 10, dopo aver preso il controllo della città,  il comando tedesco delegò l’Arma dei Carabinieri al mantenimento dell’ordine pubblico e il maggiore Cesare Ramelli di Celle, comandante del Gruppo di Lucca emanò subito un “proclama” nel quale si affermava che “a tutela delle popolazioni di Lucchesia assumo la direzione dell’ordine pubblico in tutta la Provincia”. Così il prefetto Marotta la sera dell’11 potè inviare al Ministero dell’Interno un breve telegramma: “”Provincia est occupata militarmente forze tedesche alt.  Disarmo Presidi Militari avvenuto senza turbare ordine pubblico cui tutela resta affidata Arma CC.RR. alt. Preoccupa situazione alimentare.”” E il tenente colonnello Randolf, comandante militare della zona di Lucca, emanò un primo manifesto abbastanza tranquillizzante nel quale, pur rilevando che ci si trovava in stato di emergenza e avvertendo che “ogni atto ostile contro i soldati tedeschi sarà severamente punito”, affermava, al punto
3 – Le Autorità civili rimangono nel frattempo in carica.
Al punto
4 – I Carabinieri conservano le loro armi per provvedere, come sinora, all’ordine e alla tranquillità.
Al punto
5 – Confidando nell’atteggiamento leale della popolazione rinunzio a qualsiasi limitazione delle libertà personali sinora godute.
Ed affermava anche “Noi soldati tedeschi non nutriamo nessun sentimento ostile contro la popolazione italiana.”
 Naturalmente si ebbero successivamente anche severi manifesti che minacciavano severe sanzioni contro chi dava aiuto ai prigionieri fuggiti dai campi di concentramento, chi faceva propaganda antitedesca, chi ascoltava radio straniere, ecc.
 
ATTEGGIAMENTO DEI FASCISTI. ARRIVO DI MORSERO
                       
 I fascisti lucchesi erano, come tutti, confusi e disorientati. Ma la liberazione di Mussolini e le prime comunicazioni da Monaco del 15 ridettero speranza anche ai fascisti lucchesi che il 16 settembre riaprirono la Casa Littoria. E dopo il discorso di Mussolini del 18 si riaprirono anche i fasci di Viareggio e di altri comuni della provincia, anche se gli iscritti erano pochi.
 Il 26 settembre arrivò a Lucca l’ex federale Michele Morsero e riassunse la carica di Segretario federale del P.F.R.  Il giorno stesso ordinò la riapertura di tutti i Fasci, convocò un rapporto agli squadristi e ai gerarchi locali e fece affiggere un manifesto col quale esortava il popolo e le Camicie Nere lucchesi a riprendere il proprio posto per la salvezza della Patria. E i Fasci ripresero la loro attività, ma i vecchi fascisti che non aderirono furono molti. Intanto Morsero, profittando anche di un periodo di assenza del Prefetto Marotta (che, poi, dal 25 ottobre, verrà richiamato e posto a disposizione del Ministero dell’Interno) assunse, di fatto anche i poteri amministrativi licenziando i funzionari assunti dopo il 25 luglio e riassumendo i fascisti licenziati.
 
MARIO PIAZZESI
 
Ma la sua permanenza fu di breve durata. Il 25 ottobre, infatti, arrivò l’ingegner Mario Piazzesi (anticipando di due giorni la nomina ufficiale avvenuta con la deliberazione del Consiglio dei Ministri del 27 ottobre 1943) e Morsero venne inviato a Vercelli.
 Piazzesi, uomo deciso ed energico, mise mano a un deciso rilancio del nuovo Stato sia puntando sulla politica, cioè sul Partito (già il 30 ottobre chiamava a rapporto gli ispettori di zona), sia puntando sulla rapida ricostituzione di una forza militare, cioè la Milizia. Ma oltre a ciò doveva occuparsi anche di quelle che erano prima le funzioni del prefetto. Con qualche difficoltà si procedette alla nomina di Commissari Prefettizi nei vari comuni. Infatti non era facile trovare persone idonee disposte ad accettare la carica. In qualche caso rimasero in carica vecchi podestà, in altri furono nominati funzionari della prefettura, in qualche caso furono nominati uomini che, poi, risultarono collusi con i C.D.L. Comunque la milizia fu riorganizzata sotto il comando del seniore Bruno Messori e l’86^ Legione riprese a funzionare nella caserma di S.Agostino. Così piano piano si andava ricostituendo, anche a Lucca una certa forza militare. Oltre al Btg M.T. dell’86^ fu costituito un 2° Btg Giovanile. C’erano, inoltre, i Carabinieri (fra cui 138 erano volontari), la Milizia Forestale, le guardie comunali…(in una nota all’MK 1015 del 12 dicembre 1943 Piazzesi comunicava che la forza complessiva dei corpi di polizia della provincia ammontava a 1657 uomini). Fu anche istituita una Scuola A.U. (col. Sirio Giombini) con 400 allievi e avviata la costituzione di un Btg di Fiamme Bianche.
 Occorre notare anche che erano in Lucca: un IX° Btg Milizia Armata (Seniore Tognetti) forte di 660 militi e 31 ufficiali provenienti dalla Germania e alle dipendenza del comando S.S. di Firenze; una Compagnia di Sicurezza (S.Ten Egori) di 154 uomini e 2 ufficiali, alle dipendenze del Comando tedesco di Bagni di Lucca; 26 marinai viareggini alle dipendenze del Comando marina germanico (nota del 5.2.44 di Piazzesi alla Segreteria particolare del Duce).
Particolare impegno mise Piazzesi nel favorire la presentazione delle classi richiamate con il bando del 9 novembre e l’operazione ebbe un certo successo (75% presentati) anche per merito dell’aiuto che i carabinieri diedero, guidati dal Maggiore Ramelli di Celle, amico personale di Piazzesi. E ciò malgrado che i tedeschi, alla continua ricerca di manodopera, non avessero voluto lasciare che si presentassero alle armi i giovani impiegati dalla Todt. Su questo punto l’MK 1015, comando territoriale della lucchesia, fu irremovibile.
 E la R.S.I. cominciò ad essere percepita come nuovo stato sovrano in ogni angolo della provincia ove non solo continuavano ad esistere le caserme dei carabinieri che poi diventeranno G.N.R. e che, comunque, operavano al servizio della R.S.I., ma esistevano anche piccoli presidi di G.N.R. pure nei piccoli centri di montagna. E a fine 1943 erano stati ricostituiti 26 Fasci con 2087 iscritti.
 Ma il problema che diventava sempre più grave era quello della situazione economica e degli approvvigionamenti e Piazzesi dovette prestare la massima attenzione al lavoro della SEPRAL (Sezione provinciale dell’alimentazione). Era soprattutto la situazione dei trasporti a creare le massime preoccupazioni. Scarseggiavano i camion per il trasporto merci e i trasporti per le persone erano ridotti al lumicino. Perfino le biciclette cominciavano a scarseggiare e camere d’aria e copertoni non si trovavano più. Piazzesi chiese aiuto anche ai tedeschi ma con poco successo.
 Alle 13,30 del 6 gennaio 1944, poi, si ebbe il primo bombardamento di Lucca cui altri ne seguirono. E fu un problema in più.
 Intanto cominciavano a manifestarsi attività antifasciste, per ora limitate alla diffusione di volantini, ma in montagna le prime bande di sbandati andavano trasformandosi in vere e proprie bande partigiane.
 
MAGGIO: PIAZZESI SE NE VA
 
 Tuttavia finchè il fronte di guerra era fermo sulla linea Gustav le istituzioni sia civili che militari in lucchesia ressero. Ma a Maggio, col crollo di tale linea le inquietudini divennero palpabili. Fino a determinare lo sfascio del giugno successivo. Fra l’altro il 9 maggio in lucchesia si diffuse la notizia che Piazzesi era stato trasferito a Piacenza (il giorno 6 ricevette una comunicazione del Ministero dell’Interno che lo invitava ad essumere senvizio a Piacenza entro dodici giorni. Il Consiglio dei Ministri aveva assunto questa decisione nella seduta del 18 aprile). La notizia creò sconcerto fra i fascisti che vedevano in Piazzesi una guida forte e decisa, ma anche fra i tedeschi che, evidentemente e malgrado i problemi di convivenza che certamente c’erano, si fidavano di lui e l’apprezzavano.
 In provincia circolò una “chiacchiera” secondo la quale sarebbe stato l’intervento di Moroni a far trasferire Piazzesi che si comportava con eccessiva durezza. In particolare si fa riferimento al rastrellmento fatto in Garfagnana ai primi di maggio che portò a diversi arresti e anche a qualche fucilazione.
 Ma non c’è sicuramente nulla di vero. La vera ragione per cui Piazzesi fu trasferito fu che il Governo RSI era interessato a piazzare i suoi uomini più efficienti nelle posizioni dove più ce n’era bisogno, prelevandoli per tempo dalle province destinate ad essere occupate dal nemico.
 Comunque verso la metà di maggio Piazzesi se ne andò e il 14 maggio stesso Luigi Olivieri si insediò come Capo Provincia e come reggente della Federazione del P.F.R. Olivieri, che era medico e da qualche tempo era domiciliato a Lucca, era un fascista ante-marcia, sciarpa littorio, combattente in Francia, in Jugoslavia e in Russia, iscritto al P.F.R dal 22.9.43. Era relativamente giovane (nato il 18.5.1905). Ma si trovò invischiato in una situazione difficile e non mostrò la stessa energia di Piazzesi.
 Purtroppo dopo il cedimento della linea “Gustav” e, soprattutto, dopo la caduta di Roma, si era diffuso rapidamente in tutta la Toscana la consapevolezza che quasi tutte quelle terre sarebbero presto cadute in mano al nemico perché la prossima linea di difesa, la Linea Gotica, si sarebbe attestata a nord di Lucca e di Pistoia. Così si venne a determinare uno stato d’animo piuttosto depresso, determinato anche dal fatto che si ebbe l’impressione che il governo centrale fosse intenzionato ad investire, in quelle province, il meno possibile in termini di mezzi militari, di mezzi di trasporto e anche di risorse alimentari. E si trattò di un’impressione abbastanza fondata se anche l’amministrazione militare tedesca di Lucca, MK 1015, in un rapporto del giugno manifesta esplicitamente tale impressione.
 E, in realtà, nel giugno 1944, il problema dell’approvvigionamento alimentare diventò il principale problema che assorbì le maggiori energie di tutte le alte cariche politiche e di tutti gli amministratori. La carenza di provviste alimentari era gravissima. Molti generi mancavano completamente ma anche le cose essenziali, come la farina di grano per il pane, era tutt’altro che sufficiente. Il raccolto locale non era andato molto bene ma oltre a ciò non c’era carburante per far funzionare le trebbiatrici e, soprattutto, non c’erano mezzi per ritirare i quantitativi di prodotti alimentari che sarebbero stati disponibili in Emilia. Insomma la situazione era catastrofica. Solo col mercato nero, che ormai non veniva più nemmeno combattuto, la gente riusciva faticosamente a sopravvivere. Olivieri, che dedicava tutte le energie alla soluzione di questo problema e lanciava continui appelli alle autorità centrali che, per la verità avevano messo a disposizione della provincia di Lucca consistenti quantitativi di grano e farina, da ritirarsi a Forlì e a Ravenna. Ma anche queste assegnazioni restavano in gran parte mere buone intenzioni. Infatti non c’erano gli automezzi per andarli a ritirare (di 30000 quintali poterono essere ritirati solo 17000 quintali) e le ferrovie erano interrotte. Il fatto era che nel mese di giugno i tedeschi avevano requisito alla Sepral oltre la metà dei suoi automezzi e quelli rimasti erano in pessimo stato. Nei confronti dei partigiani Olivieri tentò la carta della pacificazione liberando molti antifascisti catturati in precedenza, ma ormai il solco era troppo profondo e gli effetti di questa politica furono irrilevanti.
 A ciò si aggiunga che, con la caduta di Roma e col prendere consistenza il movimento partigiano, nel giugno il Fascismo Repubblicano in provincia si era praticamente dissolto. I piccoli presidi della G.N.R. o erano stati sopraffatti o erano stati ritirati nei centri maggiori.  I Fasci dei piccoli centri non esistevano più. I fascisti o erano emigrati al nord (anche con le famiglie, coi mezzi messi a disposizione dal partito) o, ormai rassegnati alla sconfitta, trovarono modo di convivere coi partigiani (che poi, nell’ottobre, li uccisero tutti). E a fine giugno il 639° Comando Provinciale della GNR ( ad eccezione di alcuni reparti del Battaglione che rimasero ancora per pochi giorni al comando di Bruno Messori) e tutte le forze armate della RSI lasciarono la lucchesia e furono ritirate al nord. E non solo: anche fascisti non militari e molte famiglie di fascisti lasciarono, come già detto, le loro sedi beneficiando dei mezzi di trasporto messi a disposizione dal partito. Il 14 e il 15 giugno partì da Lucca un primo consistente scaglione. Il 17 un altro grosso scaglione partì dalla Versilia verso Piacenza. Eravamo, insomma, quasi al fuggi fuggi generale. Il 23 giugno, addirittura, fuggì il Questore Tommaselli e le sue funzioni verranno svolte da Messori.
Data tale preoccupante situazione (io parlo della lucchesia ma era comune un po’ a tutte le province toscane) Pavolini decise di fare qualcosa e verso la metà di giugno scese in Toscana. Il 15 era a Firenze,  chiamò Utimperghe che era a Maderno e, con lui, il 17 fu a Lucca.
 
CHI ERA IDRENO UTIMPERGHE ?
 
 La sua famiglia era di origine straniera (forse austriaca: il vero cognome era Utimpergher) e il padre, vetraio di Murano, a causa di una crisi produttiva nel centro lagunare, si era trasferito ad Empoli, cittadina toscana per la fabbricazione di fiaschi e damigiane e qui prese a  gestire una piccola attività nel settore. Qui incontrò Drusola che diverrà sua moglie e gli darà cinque figli: 3 maschi e due femmine.  Due dei fratelli: Italico e Arturo (uno dei due fu un calciatore apprezzato nella squadra dell’Empoli) seguiranno poi Idreno nella Brigata Nera. Egli, fin da giovanissimo (era nato il 9 dicembre 1901) aveva uno spiccato interesse per la cultura, leggeva moltissimo specie autori come Alfredo Oriani, che lo condurranno verso il fascismo delle origini, socialista e rivoluzionario. La sua cultura da autodidatta era discreta, tanto che, appena ventenne, eserciterà la professione di pubblicista con Carlo Scorza. Ad Empoli è un punto di riferimento per i giovani fascisti della sua città, è molto attivo: organizza manifestazioni, partecipa a cerimonie ufficiali anche tenendo discorsi. Nel 1922 partecipa alla Marcia su Roma. Poi realizza il suo Fascismo sociale dedicandosi completamente al sindacalismo. Come segretario provinciale del Sindacato dell’Industria sarà a Vercelli, Mantova, Udine, Palermo, Taranto, Trieste. Ed è a Trieste che si trova l’8 settembre 1943.  Ed è qui che si rituffa decisamente nella politica. Immediatamente  rifonda il Fascio cittadino, prende possesso della Prefettura e assume la carica di direttore pro-tempore de “Il Piccolo”. Poi, insieme ai fratelli De Ferra piomba a Venezia con un blitz improvviso e, anche qui, rifonda la federazione fascista. La stessa cosa farà a Padova, Belluno, Treviso e Rovigo. Nel novembre viene chiamato a Maderno e da qui, chiamato da Pavolini che lo ritiene l’uomo adatto, insieme a lui il 17 giugno 1944 è a Lucca. Pavolini, quasi sicuramente, lo conosceva da tempo. Empoli è in Toscana e non è lontano da Firenze. E’, quindi, improbabile che a Pavolini fosse sfuggita l’attività, anche giornalistica, del giovane Utimperghe. Così come è certo che a Pavolini non poteva essere sfuggito il clamoroso ritorno alla politica dopo l’8 settembre. Ed è quindi naturale che Pavolini abbia scelto lui, coraggioso, audace, di sicura fede “sociale”, e toscano, come l’uomo adatto a rinvigorire il fascismo lucchese.
 
NASCE LA PRIMA BRIGATA NERA
 
Radunati i maggiorenti del Fascismo Repubblicano lucchese ed esaminata la situazione, il 22 giugno Pavolini nominò Utimperghe Commissario Federale sollevando dall’incarico Olivieri, il quale, sempre più in difficoltà, continuava ad essere prefetto. Nella stessa data, con l’assistenza del col. Giovan Battista Riggio, braccio destro di Pavolini, che rimase a Lucca qualche giorno, fu creata la Brigata Nera “Mussolini”, primo esperimento di partito armato, anticipando di qualche giorno il decreto 446 del 30 giugno, pubblicato il 1 luglio, che fondava ufficialmente il “Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere” .
Esso stabiliva che, in ogni provincia “le Federazioni assumono il nome di Brigate Nere del Corpo Ausiliario e i commissari federali la carica di comandanti di brigata”
  L’organo ufficiale della Federazione di Lucca, “L’Artiglio” del 29 giugno 1944 dava notizia che il giorno 22 dello stesso mese (contemporaneamente alla nomina ufficiale a Commissario Federale di Utimperghe) , su sua iniziativa si era costituita la “Brigata Nera Mussolini”
 Lo stesso numero de “L’Artiglio” invitava i fascisti repubblicani inquadrati nella nuova Brigata Nera a presentarsi presso la caserma di S.Agostino (caserma della 86^ Legione della Milizia) per ritirare l’equipaggiamento e presentarsi, subito dopo, al comandante Utimperghe presso il Palazzo Littorio.
  Utimperghe doveva, dunque,  rianimare e rinvigorire il Fascismo Repubblicano lucchese che, dopo la partenza di Piazzesi era fortemente in ribasso.
  Egli si accinse al suo compito con molta energia, trasmettendo coraggio ed entusiasmo. Chiamò a raccolta tutti i fascisti lucchesi, versiliesi e garfagnini e li esortò a prendere le armi e a diventare “partito armato” per l’ultima battaglia.
 Nei mesi precedenti, forse su iniziativa di Piazzesi, si erano costituiti in lucchesia dei gruppi di Fascisti Armati denominati “Compagnie della morte” o “Mai Morti”. I componenti di tali gruppi confluirono tutti nella Brigata Nera “Mussolini”. Il nome”Mussolini” sarà conservato praticamente per sempre anche se, ufficialmente, come stabiliva il decreto, prenderà il nome di “Piacentini”, dal caduto Piacentini Natale morto in combattineto a Rivergaro il 24.11.44. Era di Barga.
 Utimperghe si mise al lavoro sviluppando da subito una attività molto intensa. Essa mirava, soprattutto, a organizzare al meglio la sua Brigata che, fin che rimase in lucchesia non raggiunse mai i duecento uomini, arrivando a contare intorno ai 160 , come risulta dagli elenchi che abbiamo recuperato.
 Il Prof. Giuseppe Pardini nel suo La Repubblica Sociale Italiana e la guerra in provincia di Lucca (1940-1945) dice che “avevano chiesto l’arruolamento circa 200 uomini…ma i realmente mobilitati e armati furono circa 130, oscillando l’organico comunque a seconda dei momenti tra 190 (numero massimo raggiunto) e i 90”
 Non appena la Brigata Nera ebbe completato gli arruolamenti e l’organizzazione, verso la metà di Luglio, Utimperghe volle mostrarsi alla città e organizzò una notevole manifestazione: adunata in piazza Napoleone detta anche Piazza Grande e sfilata per le vie di Lucca. Tutti in divisa, armati, perfettamente inquadrati sfilarono fra due ali di popolo che – mi dice un reduce – tributarono anche degli applausi. Ma c’erano anche donne che piangevano, forse madri di soldati. Comunque fu una prova di efficienza organizzativa e, soprattutto, fece vedere che a Lucca la R.S.I. aveva ancora una forza militare che la controllava.
L’elenco ordinato dei brigatisti fa riferimento alla data del 14 agosto; si sa, però, che molti nomi si aggiunsero anche in seguito sia – come possiamo vedere dagli elenchi stessi - quando la B.N. era ancora in provincia di Lucca, sia quando si era spostata al nord. Ad esempio Sebastiani parla (pag. 97) di un certo professor Pietro Pacini “singolare presenza di un  antifascista storico in una brigata nera”. Altri esempi: Francesco (Checco) Vergai di Camporgiano (ispettore di zona) che andò al nord nel dicembre 1944; e ancora: degli uomini che erano sull’autoblinda a Musso soltanto otto erano nell’elenco dell’agosto (Del Grande Ginese, Menichini Alfredo, Sebastiani Giuliano,Coltelli Alfio, Giorgetti Luigi, Degl’Innocenti Mario,  Degl’Innocenti Nello e Utimpergher Idreno) mentre Giorgi Giovanni, Chiavacci Merano, Taiti , Barsotti e lo stesso Cap. Tremi Evandro non erano nell’elenco e, quindi, si erano arruolati successivamente. ( Un reduce, però, mi ha detto che Tremi era nella B.N. già a Lucca. Quindi forse l’elenco presenta qualche lacuna) . E  anche molti che figurano fra i caduti non sono in quell’elenco.  
 
 
LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DELLA BRIGATA NERA
 Dall’elenco del 14 agosto la Brigata risulta così organizzata: Comandante Col. Idreno Utimperghe (Successivamente Pavolini lo avrebbe nominato Generale di Brigata), Vice Com. Ten. Col, Burchi Bruno, Capo di Stato Maggiore Maggiore Carlo Alberto Gusmitta (Egli, però, prima che la brigata lasciasse Lucca, fu distaccato, non si sa bene con che funzioni, presso un Ministero (forse dell’Interno e non si sa bene con quali funzioni.). E Capo di S.M. diventò quello che prima era il Sotto Capo di St. Magg. Cap. Gino Vivarelli.) La Brigata è organizzata in due Squadre. La Prima è comandata dal Capitano Gino Vivarelli ed ha quattro plotoni per un totale di 50 uomini più dieci arruolati proprio quel giorno. La Seconda è comandata dal Cap. Vittorio Marlia ed ha 3 plotoni per un totale di 45 uomini più 12.  Si tratterebbe di 120 uomini contando anche i tre del comando. In calce all’elenco però c’è una nota che dice: “”I volontari del 28 agosto furono aggregati alla brigata in ritirata verso la Garfagnana”. Bisogna, quindi, aggiungere anche questi uomini, di cui, però, non conosciamo né i nomi né il numero.
 All’intendenza, cioè all’amministrazione della Brigata era il professore di matematica (ma pare facesse il disegnatore presso il Genio Civile) e pittore lucchese Francesco Carrara (forse nipote del giurista con lo stesso nome vissuto nell’800) , gran fascista e uomo di grande onestà riconosciutagli da tutti, tanto è vero che non subì nessuna conseguenza e, dopo la guerra, potè riprendere la sua attività. . Suo aiutante era Franco Franchi e, forse, anche Franco Casamassima. Né il Carrara né il Franchi sono citati nell’elenco.                                                                                                                                         
E cominciò l’attività della Brigata che, come vedremo, dopo che furono ritirate le altre forze armate e, soprattutto, dopo il 4 luglio, giorno in cui Lucca fu dichiarata zona di guerra, era rimasta non solo pressochè l’unica forza militare ma, addirittura, l’unica istituzione a rappresentare la RSI in lucchesia. (Olivieri era ancora a Lucca ma, ormai, era pressochè esautorato e si stava preparando ad andarsene. Se ne andrà  il 19 richiamato a Valdagno a disposizione del Ministero dell’Interno, e con lui se ne andrà anche Messori coi pochi militi della GNR che con lui erano rimasti)
 Circa l’attività militare contro i ribelli, si sa che il 3 agosto due brigatisti in motocicletta (Gualtiero Casali e il Ten. Sante Barbieri) subirono un agguato nei pressi del paese di San Lorenzo a Vaccoli e il Barbieri rimase ferito. I due rientrarono al comando e dettero l’allarme. Subito Utimperghe inviò una settantina di uomini sul luogo e questi entrarono nelle case e le perquisirono comportandosi – pare – piuttosto duramente. Alla fine arrestarono cinque uomini sospetti che, poi, finiranno in Germania come lavoratori e rientreranno a guerra finita. Non ci furono uccisioni. Il 21 agosto ci fu un rastrellamento dei tedeschi nella piana di Lucca e nella stessa città e pare che alcuni brigatisti, cui il territorio era, ovviamente, noto li coadiuvassero (si citano i nomi di Almo Del Poggetto e Giorgetti Orlandino). Il 24 ci fu un nuovo rastrellamento sul Monte Faeta (monti pisani) dove si erano rifugiati anche prigionieri evasi dal Campo di Concentramento di Colle di Compito. Il rastrellamento fu condotto dai tedeschi ma i brigatisti parteciparono. Lo stesso accadde in Lucca il 27 e pare che alcuni degli arrestati fossero “costretti” ad arruolarsi nella B.N. E pare anche (lo dice Sebastiani) che la B.N. abbia partecipato alle azioni contro la sedicente repubblica partigiana di Montefiorino. Inoltre il prete di Gorfigliano in data 26.8.44 dice che “Di buon mattino militari della "Maimorte" arrestano i tre nominati. Settimo Bianchi, socialista, prima in albergo, si ricovera dal prete. I tre arrestati sono liberi dopo pochi giorni per interessamento del comando tedesco.” Credo fossero uomini della B.N. che il prete continuava a chiamare Mai Morti. Alla vigilia della liberazione di Lucca, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, una pattuglia di soldati tedeschi appartenente alla XVI divisione “Reichsfuhrer-SS” irruppe nella Certosa dello Spirito Santo, a Farneta. Furono catturati tutti monaci presenti, assieme ad oltre un centinaio di civili che, a partire dall’inverno precedente, hanno trovato rifugio e protezione entro le mura del monastero. Tra loro anche ebrei. Diversi di questi vennero poi fucilati. In quell’occasione fonti antifasciste accusarono alcuni fascisti della  B.N. di essere stati gli informatori dei tedeschi. Ma non fu provato e non ci fu nessuno con questa imputazione. L’unica cosa che lega la B.N. ai fatti di Farneta sta nel fatto che in quell’occasione fra gli arrestati dai tedeschi ci fu il Dr. Guglielmo Lippi Francesconi che era il direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano. Al che Utimperghe, quale capo provincia, provvide a sostituirlo con un suo fedelissimo: Vittorio Marlia, che era il responsabile del personale di quello stesso Ospedale. Non risultano, invece, azioni militari in Garfagnana (a parte quel che dice don Vincenti) dove, pure, i partigiani cominciavano ad essere attivi. Le azioni antipartigiane del maggio in Garfagnana furono condotte dai tedeschi, dalla X^ Mas e dalla GNR di Messori. Quelle del giugno e del luglio furono condotte esclusivamente dai tedeschi. E anche i giudici del processo alla B.N. del 1947 (ne parlerò fra poco) ritennero la maggior parte degli imputati per i fatti più sopra ricordati colpevoli solo di “collaborazionismo” perché avevano operato sotto comando tedesco.
 
UTIMPERGHE CERCA DI AVERE SOTTO CONTROLLO TUTTA LA PROVINCIA
  Naturalmente Utimperghe cercò di avere il controllo del territorio non solo in Lucca città e nel circostante territorio detto “piana di Lucca”, ma anche in Versilia e in Garfagnana dove vennero costituiti dei presìdi utilizzando i brigatisti residenti nei territori.I principali distaccamenti furono 4: Lucca (Cap. V.Marlia),  Bagni di Lucca (Ten. M.Grossi), Camaiore (F.Casamassima), Castelnuovo Garf. (S.Turri), ma furono costituiti anche piccoli presidi a Forte dei Marmi, Molazzana, Castiglione G., S.Romano G. e, forse, anche Sillico.
Oltre a ciò si preoccupò di stabilire rapporti accettabili con i comandi tedeschi, tuttaltro che benevoli nei confronti della brigata, anche per tutelare la popolazione. Sebastiani, per la verità non sempre attendibile, narra un episodio in cui Utimperghe ottenne la liberazione di alcuni ostaggi rastrellati dai tedeschi delle S.S., millantando una forza di 2000 uomini. Con la partenza di Olivieri, poi, avvenuta il 19 luglio, Utimperghe (che pare l’avesse decisamente sollecitata) assunse, di fatto, le funzioni di Capo Provincia a tutti gli effetti e anche di Comandante Militare. Secondo Sebastiani il comando della 65^ divisione Hand Granate, per intercessione del giovane colonnello austriaco Suffa, fece assumere a Utimperghe il comando di piazza di Lucca, col compito di svolgere le funzioni amministrative (in definitiva l’accettazione di Utimperghe quale Capo Provincia) e l’autorizzazione dello stesso Suffa a una “vigilanza mobile” lungo l’Arno.  Il primo, immediato comunicato di Utimperghe fu il seguente:
 “” Comando Militare della Provincia di Lucca: Da oggi assumo tutti i poteri militari e civili finora di competenza dell’Autorità italiana. In questo momento è maggiormente indispensabile che tutte le leggi della Repubblica Sociale Italiana e le disposizioni di questo Comando siano strettamemnte osservate nella loro integrità. Ogni infrazione dolosa, sabotaggi, saccheggi, ogni disordine, troveranno la durissima inesorabile sanzione delle leggi di guerra italiane e tedesche. Con gli alleati Germanici , legati a noi da comunione di sangue e di idealità, eleviamo ancora e sempre, con ogni nostra possibilità spirituale e materiale, la mistica certezza in un avvenire degno dei nostri sentimenti d’onore e dell’eroismo delle nostre armi.””
 Immediatamente, con repentine decisioni e ferree misure, colmò, usando i fedelissimi,  i vuoti che si erano creati nella struttura provinciale repubblicana. Così nominò Carlo Gusmitta a reggere la questura, Alpinolo Franci Commissario Prefettizio del Comune di Lucca (dopo che Giannini, il podestà, si era dato alla latitanza) e Dante Briganti Commissario per la straordinaria gestione dell’Amministrazione Provinciale. Oltre a ciò nominerà anche altri suoi uomini sicuri a reggere diverse altre amministrazioni comunali. Anche L’Artiglio giornale della federazione, cambiò nome e assunse quello di Brigata Nera “Mussolini”.
A questo punto, naturalmente, dovette essere lui ad occuparsi anche di assistenza alla popolazione, preoccupandosi dei rifornimenti alimentari e di quant’altro serviva per la popolazione stessa.  Col 1° settembre, poi, assumerà anche le funzioni di Capo Provincia di Pistoia, che delegherà al suo Vice Ten. Col. Bruno Burchi. Creerà anche un distaccamento a San Marcello Pistoiese al comando del Capitano Gino Vivarelli e uno a Cutigliano al comando del Ten. Carlo Dinelli . 
                                                                                                                    
L’ATTIVITA’ DI UTIMPERGHE COME CAPO-PROVINCIA
 Bisognerà considerare attentamente questo tipo di attività, che fu importantissima e, forse, non sufficientemente apprezzata.
 Quanto al problema dei rifornimenti alimentari per la popolazione la situazione era davvero drammatica. Quasi tutti i mezzi di trasporto erano stati requisiti dai tedeschi per esigenze militari per cui dall’esterno della provincia non affluiva più nulla. Ed anche le risorse locali potevano essere utilizzate con difficoltà. Mancava il combustibile per le trebbiatrici e molto grano non era neppure stato mietuto. Utimperghe concesse ingenti somme a beneficio di una dozzina di enti e istituti di beneficenza che aiutavano le famiglie in maggior difficoltà. E poiché molti contadini non avevano mietuto il grano perché “avevano ascoltato Radio Londra”, emanò un’ordinanza in base alla quale chi ne avesse avuto bisogno per sostenersi avrebbe potuto andare a requisire il grano direttamente nei campi, pagandolo lire 3,50 al Kg. L’attività di Utimperghe fu febbrile in questo campo. Dopo aver cercato invano di avere dai tedeschi qualche mezzo di trasporto per poter trasportate in provincia i viveri assegnati e giacenti in altre province (in genere in Emilia) capì che bisognava contare sui soli viveri prodotti in loco. Così fece portare a termine la mietitura e fissò nuovi prezzi. Poi vennero varati dei piani settimanali di approvvigionamento basati sulle quantità alimentari a disposizione. Il primo fu del 21 luglio, cioè due giorni dopo la partenza di Olivieri e l’assunzione della carica di Capo Provincia di Utimperghe. Purtroppo le disponibilità erano modeste e le razioni dovettero essere ridotte.
 Un’occhiata alla seguente tabella che elenca i generi alimentari disponibili per la provincia nell’ultima settimana di luglio danno l’idea della drammaticità della situazione:
     Farina da pane    occorrente   q.li 30000         disponibili  q.li 11000
     Minestra                                   11000                             2800
     Zucchero                                    2400                               150
     Grassi                                           600                                   0
     Formaggi                                     1200                              200
     Pomodoro                                   1200                              100
In tali condizioni ogni comunità locale finì per cercare di arrangiarsi come potè per sopravvivere. E per la città si prese perfino in considerazione l’opportunità di sfollarla, cosa che, però, fu impossibile realizzare.
 Gli americani, però, continuavano ad avvicinarsi e, visto che le fortificazioni della linea gotica erano state predisposte all’altezza di Borgo a Mozzano lungo la valle del Serchio, era evidente che la città di Lucca non sarebbe stata difesa. In considerazione di ciò Utimperghe fin dal 23 luglio 1944  decise di spostare il capoluogo al di sopra della linea gotica e “” Prefetto, Questore, Commissario si trasferirono a Bagni di Lucca con circa 150 uomini della B.N. e occuparono il Comune e altre ville. Comm. Pref. del comune era il Dr. Cheli che, però, si dette ammalato e non riprese più servizio.”” (Mons.Lombardi). Naturalmente, però, nella città di Lucca c’era ancora un presidio comandato dal capitano Vittorio Marlia che la teneva sotto il suo controllo.
 Era ormai evidente, tuttavia, che Lucca e la piana di Lucca avrebbero dovuto essere abbandonate entro breve tempo. E Utimperghe, già nell’ultima riunione importante dei fascisti repubblicani che si tenne il 10 agosto, di fatto dette l’addio a Lucca. E rivendicando quanto fatto come Capo Provincia a beneficio della popolazione, concluse il suo discorso dicendo: “”I risultati, date le enormi difficoltà sono stati certamente inferiori al sacrificio e all’attività svolta. Ma i lucchesi dovranno ricordare questi giorni perché, anche se avessimo sbagliato, era in noi la sola intenzione di poter riuscire ad eliminare qualche dolore, ad asciugare qualche lacrima, a dare a Lucca, cioè, ogni aiuto sincero e fraterno, per rendere meno ardua la dolorosa realtà che attraversiamo con cuore stretto, anche se la volontà più ferrea ci spinge ad agire con ogni energia e con la più grande decisione.””
 Allorchè Lucca dovette essere abbandonata, anche la Versilia fino a Forte dei Marmi dovette essere abbandonata. Qualcuno ha detto che allora alcuni versiliesi della Brigata Nera di Lucca anziché ritirarsi lungo la valle del Serchio, si ritirarono su Massa e Carrara aggregandosi alla 35^ B.N. di Apuania. Fra i fucilati della 1^ Brigata Mobile “Vittorio Ricciarelli” c’è il Ten.Col. Vincenzo Gasperetti nato il 8.9.1893 a Seravezza. Ora la Brigata Mobile Ricciarelli altro non era che la B.N. di Apuania unita alla B.N. Marche per cui potrebbe anche essere che il Gasperetti fosse uno dei brigatisti versiliesi che, al momento della ritirata, si unirono, appunto, alla B.N. di Apuania. Altri, però, smentiscono questo fatto dicendo che anche tutti i versiliesi seguirono la brigata in Garfagnana.
Durante la permanenza a Bagni di Lucca pare che la contemporanea presenza di un comando tedesco creasse qualche problema. Sebastiani dice che con le SS le relazioni erano molto difficili e parla addirittura di “rischio di finire a fucilate ” (cosa affermata anche da altre fonti a Bagni di Lucca)
Egli dice anche che, per fortuna, c’era un ufficiale austriaco, il già nominato colonnello Suffa che era amichevole e che permise perfino, come già detto, che qualcuno della B.N. affiancasse i soldati tedeschi sul fronte, forse sull’Arno. 
 Trascorsero, così, i mesi di Luglio e di Agosto, durante i quali – dice Sebastiani – Utimperghe cercò a lungo di ottenere da qualche comando tedesco di poter essere incorporato in qualche unità tedesca combattente per poter utilizzare sul fronte, contro gli anglo americani,  la sua brigata mobile. Ma, sostanzialmente, pare che l’attività prevalente di Utimperghe in quel periodo sia stata quella politico-amministrativa di Capo Provincia.
 Cosa che pare accadesse anche in periferia, nei vari distaccamenti. Il capitano Gino Vivarelli, per esempio, era anche Segretario di Fascio e Commissario Prefettizio del Comune di Barga (dal 14.1.44), idem  il Sten Silla Turri a Castelnuovo Garfagnana (dal Luglio 44), idem Sante Barbieri a Forte dei Marmi, idem Augusto Girolami a Castiglione (dal 5.9.44 la carica passerà al Ten. Ricci Aurelio), idem Aurelio Ricci a Fosciandora (dal 9.8.44) (1). E dal 2.9.44 Comm.Pref di Borgo a Mozzano sarà il Ten. Dinelli Carlo.
 
IL PRIMO ATTENTATO CONTRO LA BRIGATA NERA A CASTELNUOVO GARFAGNANA
 
 Contro il Silla Turri i partigiani garfagnini, compirono un attentato il 20 agosto. Nella notte questi erano riusciti, pare costringendo la figlia del custode della Rocca Ariostesca ove aveva sede il Comune a fornire la chiave, a penetrare nella sala consigliare ove la mattina dopo avrebbe avuto luogo una riunione presieduta dal Turri e a piazzare una bomba a orologeria sotto la pedana sulla quale avrebbe preso posto proprio il Turri. La bomba esplose quando il Turri non era ancora seduto al suo posto. Egli, quindi, rimase illeso, ma l’esplosione uccise il Serg. Giovanni Battaglini e ferì gravemente ad una gamba il brigatista Giulio Tamburi, tanto che rimarrà claudicante senza speranza di recupero. Questo fatto, fra l’altro, sarà la causa indiretta della sua morte. La sua infermità, infatti, gli impedì di seguire la B.N. al nord e rimase a casa. Dove, appena arrivati gli americani, fu, insieme ad altri prelevato dai partigiani e fatto sparire. L’attentato era cosa era grave ma, contrariamente a quel che si poteva temere, la reazione fu molto controllata. Non ci fu nessuna rappresaglia contro la popolazione e fu proceduto nella più rigorosa legalità. I carabinieri, ora GNR, erano ancora al loro posto ed esercitavano le loro funzioni. Ci furono le necessarie indagini e si procedette anche a qualche arresto di sospettati (pare che fra gli arrestati ci fossero anche i veri responsabili). Ma non furono trovate le prove di colpevolezza per cui tutti furono rilasciati. Evidentemente il Fascismo Repubblicano, soprattutto quello locale, e anche Utimperghe,  scelsero di mantenere la più rigorosa legalità ed evitare ogni arbitrio.
 Ma l’avanzata degli anglo-americani ( si trattava dei brasiliani del FED) non si era arrestata e ai primi di settembre Lucca stava per essere occupata. Il 2 settembre Utimperghe  lasciò definitivamente Lucca. In città rimase soltanto un piccolo  presidio che lasciò la città il giorno 4, poco prima che vi facessero il loro ingresso gli americani.
 I distaccamenti in Garfagnana vennero rinforzati e ne vennero creati di nuovi fra cui  Barga e Gallicano. E  venne rinforzato, il 5 settembre, l’importante distaccamento di Castiglione Garfagnana, sulla via che collega la provincia di Lucca con la provincia di Modena attraverso il passo delle Radici.
 Naturalmente Utimperghe, nella sua veste di Capo-Provincia, manteneva stretti contatti anche con gli amministratori di quei comuni che non erano controllati direttamente dai suoi uomini. A Camporgiano, per esempio, avevamo un Commissario Prefettizio efficientissimo. Si trattava di un certo Prof. Ulisse Micotti di un ramo della cospicua e antica famiglia Micotti di Camporgiano, quindi italianissimo, ma nato e cresciuto in Germania dove il padre era emigrato. Egli, duranti le prima guerra mondiale, aveva prestato servizio come ufficiale nell’esercito tedesco ed aveva il forte carattere dei militari tedeschi. Ai primi di giugno aveva accettato di fare il Commissario Prefettizio dopo che due o tre, dopo breve periodo, avevano dato le dimissioni spaventati dalla pericolosità dell’incarico. Credo lo abbia fatto un po’ per ambizione (girava per la Garfagnana tutto impettito su una vecchia Fiat Balilla sul cui parabrezza spiccava a lettere cubitali un cartello con la scritta “BURGMASTER”) E un po’ per il bene della popolazione. Non credo che avesse delle motivazioni politiche, anche se aveva un figlio della mia età (1930) che aveva battezzato Benito. Le caratteristiche suddette, unite al fatto ovvio che parlava perfettamente il tedesco, lo metteva in grado di trattare coi tedeschi con grande autorità. Gli ufficiali tedeschi lo salutavano militarmente sull’attenti. Per queste sue qualità finì, di fatto, con lo svolgere la funzione di governatore della Garfagnana. Infatti ovunque ci fosse un problema coi tedeschi veniva chiamato lui che trovava sempre il modo di risoverli senza danni per la popolazione (vedi caso dell’attentato di Poggio del 20 giugno). Era quindi inevitabile che fra lui e Utimperghe ci fossero frequenti e stretti contatti. Probabilmente non c’era simpatia ma c’era rispetto e correttezza. Più volte Utimperghe è venuto da lui a Camporgiano, accompagnato da un folkloristico camioncino sul quale stavano, anche sul predellino, diversi brigatisti scamiciati che cantavano e vociavano. E talvolta, nel tardo settembre, era il Micotti che si recava a Castiglione da Utimperghe. L’ultima volta che ci andò, però, era ormai verso la fine di settembre, lo vedemmo tornare, sempre rigido e impettito ma seduto su un rozzo barroccio trainato da un mulo. Utimperghe, che si preparava a partire, gli aveva requisito la Balilla. La cosa apparve grave e tutti pensarono che Utimperghe avesse fatto un riprovevole atto di prepotenza.
 Durante le mie ricerche, però, ho trovato nell’archivio storico del comune di Camporgiano, uno scrupoloso rendiconto di uno strano FONDO SEGRETO che il Micotti aveva costituito per fronteggiare le tante emergenze. Tale fondo era stato costituito in maniera veramente singolare : soldi ricavati dalla vendita di botti e barili di proprietà del Micotti stesso, fondi raccolti dalla figlia che ballava per i soldati, stoffe donate dal Generale Carloni e, infine, da 5000 lire donate dal comandante Utimperghe. Era forse il compenso per la Balilla ?
 
LA BRIGATA NERA IN GARFAGNANA
 
Tornando alla narrazione dei fatti: a settembre fu chiaro che i tedeschi avrebbero abbandonato anche la linea fortificata di Borgo a Mozzano per attestarsi più a nord, nella “stretta di Palleroso”, poco a sud di Castelnuovo. E allora anche Bagni di Lucca dovette essere abbandonato. Il 19 Utimperghe spostò la Brigata Nera e tutto l’apparato del capoluogo di provincia a Barga dove rimase per pochi giorni  (2) giacchè il 25, quando si ritirarono i tedeschi, anche la Brigata Nera la lasciò ritirandosi a Castelnuovo e, poi, a Castiglione.
 Pochi giorni prima, il 22 settembre, il presidio di Castelnuovo era stato vittima di un grave attentato. Tale presidio era, fino alla fine di agosto- primi di settembre, acquartierato presso l’albergo “Globo” nel centro del paese, ma, a causa di un devastante bombardamento aereo lo aveva lasciato e si era trasferito nel convento dei Cappuccini, su una collina alla periferia. La sera del 22 accadde che, mentre tutti gli uomini e due ausiliarie erano riuniti a mensa, venti partigiani guidati dal Ten Bertagni, approfittando dell’assenza di sentinelle (purtroppo i brigatisti del presidio si sentivano troppo sicuri) tentarono di gettare  delle bombe a mano attraverso una finestra. Ma essendo la finestra munita di inferriata la maggior parte delle bombe rimbalzavano su di essa ed esplodevano all’esterno. Allora i partigiani spararono raffiche di mitra contro la finestra per creare una copertura ad alcuni di loro che poterono avvicinarsi alla finestra e gettare diverse bombe all’interno creando un grande subbuglio. Non ci furono morti ma diversi feriti, fra cui lo stesso capo-distaccamento Silla Turri. Anche le due ausiliarie subirono gravi ferite, tanto che una di loro, Ada Satti, moglie del brigatista Ricci Simone, perse un braccio. Utimperghe temette che altri presidi fossero stati attaccati simultaneamente, soprattutto temette che il piccolo presidio di San Romano, comandato dal un giovane Tenente , fosse stato sopraffatto. Ma questo non era avvenuto giacchè l’unico attacco partigiano fu quello “dei Cappuccini”.
 Questa volta la reazione ci fu e violentissima. Il principale artefice pare sia stato il Ten. Lio Rossi del presidio di Gallicano che, portatosi immediatamente a Castelnuovo dette vita ad una feroce e un po’ scomposta rappresaglia. In mattinata vennero fucilati tre uomini rastrellati nei dintorni, insieme a un partigiano (che, forse, fu l’unico vero partigiano) che era stato catturato proprio quella mattina. Nel pomeriggio, poi, le squadre batterono le campagne circostanti e, trovati altri quattro uomini, probabilmente semplici agricoltori che lavoravano in campagna, li fucilarono seduta stante. Erano due coppie di fratelli. E non fu tutto. Il 25 fu catturato un altro partigiano, certo Dini il quale il giorno dopo, mentre i tedeschi lo stavano interrogando, riuscì ad afferrare una bomba a mano e a farla esplodere uccidendosi e uccidendo, pare, anche chi lo stava interrogando.
 E c’era un altro presunto partigiano (era stato sorpreso in atteggiamento sospetto con un binocolo e arrestato il 20 dai tedeschi , poi passato alla B.N. per un interrogatorio e, poi, riconsegnato ai tedeschi) prigioniero a Castiglione. Era un certo Berni, uomo non giovanissimo. Il 29 settembre, secondo una certa versione, fu ucciso e il cadavere, legato dietro a un camion,  fu trascinato per alcuni chilometri fino alla Foce di Terrarossa. Qualcuno afferma che ci sia stato legato vivo e che sia stato ucciso in quel modo. La vicenda, però, presenta lati oscuri. Un sito dell’ANPI, per esempio, accredita una versione diversa e dice che il Berni fu catturato dai tedeschi e, poi, consegnato ai “repubblichini” che poi lo riconsegnarono ai tedeschi. Ma prima lo torturarono per estorcergli informazioni tanto che lui, per sottrarvisi, si strappò le vene dei polsi con i denti, suicidandosi. Quindi “trovato ormai esangue” fu legato a un camion tedesco che lo trascinò, praticamente già morto, fino alla foce di Terrarossa. E a farlo insieme a dei tedeschi furono accusati anche  alcuni brigatisti, a cominciare del Capo presidio Ricci Aurelio..
 Al processo del 1947 il principale imputato della sua morte fu, appunto, Aurelio Ricci, condannato il 22 novembre 1947 dalla Corte di Assise di Lucca alla pena dell’ergastolo. Il 16 marzo 1950 la Corte di assise di Firenze, però,  lo assolve dal reato di omicidio, per insufficienza di prove, condannandolo a 24 anni per collaborazionismo e per aver compiuto interrogatori, violenze e sevizie “particolarmente efferate”. L’11 dicembre 1952 la Corte di appello di Perugia, infine,  ne ribadisce l’assoluzione in relazione all’omicidio e muta le “sevizie particolarmente efferate” – non amnistiabili – in “violenza semplice”, dando a Ricci la possibilità di usufruire della amnistia del 22 giugno 1946. In conclusione: non c’è dubbio che il Berni sia stato ucciso. Forse è vero il trascinamento del cadavere, testimoniato da diverse persone. Ma se il prigioniero era in mano ai tedeschi e il camion era tedesco pare molto probabile che la responsabilità dell’atto sia da attribuire tutta ai tedeschi.
 Dopo l’attentato la B.N. lasciò i cappuccini e si acquartierò in una villa situata lungo la strada allora provinciale che sale verso Camporgiano, alla periferia nord di Castelnuovo. Ma dovette essere per pochi giorni prima del concentramento a Castiglione in vista della partenza.
                                                                                                                
LA BRIGARA NERA LASCIA LA GARFAGNANA
 
 Dice Sebastiani che i mezzi di trasporto bastavano soltanto per i brigatisti più vecchiotti per cui lui con un altro bel gruppo di brigatisti partirono a piedi nel pomeriggio e,  dopo aver camminato tutta la notte giunsero al passo delle Radici il mattino dopo. Da qui telefonarono al comandante che era già a Pievepelago e seppero che dovevano raggiungere a piedi Pievepelago e poi Pavullo nel Frignano che era la loro destinazione provvisoria. Quasi sicuramente era il 29 o il 30 settembre 1944. Altri testi attendibili, però, smentiscono il Sebastiani dicendo che i mezzi di trasporto erano sufficienti e nessuno andò a piedi.
 Così la Brigata Nera lasciava la Garfagnana portandosi dietro una fama di ferocia dalla quale non si libererà più. Anche a causa del clamore mediatico che se ne farà nel dopoguerra col processo che ne seguì e le dure condanne che vennero inflitte, attribuendo ad essa anche crimini che, in realtà, forse non aveva commesso. Come ho già detto qualcuno in passato ha detto che i versiliesi (o, almeno, parte di essi) non vennero in Garfagnana al momento del ritiro ma si unirono alla B.N. di Massa. Un reduce molto attendibile, però, lo smentisce decisamente. E, in effetti, fra  i processati della B.N. di Massa (praticamente tutta la brigata) e fra i caduti della Brigata Mobile “Ricciarelli” (in cui era confluita la B.N. di Massa) ho trovato soltanto tre cognomi che potrebbero essere lucchesi: Bertini Giovanni, Del Frate Giuseppe e Bertolini Luciano. Nessuno dei tre, però, risulta aver appartenuto alla B.N. di Lucca.
 
A PAVULLO
 
Stabilitisi, quindi,  a Pavullo nel Frignano in attesa di una destinazione definitiva, requisirono un grande albergo che conteneva tutta la brigata. Secondo Sebastiani Utimperghe continuava a chiedere a destra e a manca, recandosi a Bologna, a Parma e in altri luoghi di essere impiegato al fronte. Ma sempre senza successo. Dal notiziario della B.N. si ha notizia che “ Il 10 ottobre una squadra autocarrata del Presidio di Pievepelago ha eseguito un giro nella provincia di Pistoia invasa, spingendosi fino a Ponte Sestaione sulla linea di combattimento. Gli squadristi hanno distribuito alle popolazioni meritevoli i necessari aiuti” . Ma non c’è nessuna notizia di impiego in azioni militari. E, forse, non ci furono altre occasioni di avvicinarsi al fronte.   Durante la permanenza a Pavullo la brigata ebbe l’incarico di pattugliare la strada che da Pavullo va a Maranello. Durante questo pattugliamento, dice Sebastiani senza fare i nomi, persero due uomini, uccisi dai partigiani di Montagnana. Uno di questi era Bartolomei Ivan di Fornaci di Barga che morì cadendo dal predellino del camion durante una di queste missioni . Fu qui che i lucchesi della B.N. trovarono il Prof. Pietro Pacini rastrellato dai tedeschi. Era un antifascista storico ma pare fosse un buon uomo che non dava noia a nessuno per cui, in qualche modo, Utimperghe riuscì a toglierlo ai tedeschi e lo arruolò nella B.N. Che era il posto più sicuro per non subire altri rastrellamenti.
 Presumibilmente la permanenza a Pavullo dovette durare fin verso i primi di novembre. Infatti le prime notizie di scontri con i partigiani risalgono alla fine di novembre in quel di Rivergaro ma, sempre a detta di Sebastiani durante il primo periodo di permanenza a Piacenza i brigatisti ebbero un periodo di esercitazioni al tiro presso il “tirassegno militare”. Comunque la nuova destinazione fu, appunto, Piacenza, da raggiungersi entro una settimana. Pare che la brigata si dotasse di mezzi di trasporto creando posti di blocco dove le auto venivano fermate e requisite senza tanti complimenti.
 
A PIACENZA
 
 Ed eccoci a Piacenza. Qui la Brigata, ben accolta dalla Brigata Nera di Piacenza, fu sistemata in un’ottima caserma dove – dice Sebastiani – c’erano persino i termosifoni. Qui vennero abbondantemente riforniti di uniformi, scarponi, giacche a vento e ottimo e abbondante cibo.
 Per alcuni giorni si recarono – come già detto - cantando a fare esercitazioni di tiro presso un “tirassegno militare” (cioè un poligono di tiro).
 Fu durante questo periodo che Utimperghe fece trasformare il vecchio Lancia 3RO in una bizzarra autoblinda. Il risultato, comunque, fu giudicato “magnifico”.  Aveva una mitragliera da 20 mm Hoerlikon sulla torretta centrale, una Breda 38 su ciascuno dei due lati e, in coda, una 37 mm la cui canna spaziava per 120 gradi, con una discreta blindatura resistente alle armi leggere. Sarà l’autoblinda che porterà Mussolini fino a Musso.
 In quel periodo Giorgio Pini, incaricato di un’indagine sulle città emiliane, stese una relazione per Mussolini nella quale si parla senza simpatia anche di una Brigata Nera mobile, comandata da un certo Utimperghe che ostentava i gradi di Generale di Brigata, con soli 53 uomini ma molto denaro, che si aggirava nel piacentino.
  Evidentemente aveva visto solo una parte della brigata.                                   
  Bisogna tener presente, a questo punto, che la B.N. “Mussolini”, non avendo più un territorio proprio, era considerata, appunto, una Brigata Mobile, da utilizzare là dove ce ne fosse bisogno. Quindi, mentre la B.N. di Piacenza, la “Pippo Astorri”, controllava la città, la “Mussolini” fu incaricata di rastrellare la provincia.
  Così verso la fine del mese di novembre iniziò un grosso rastrellamento in Val Tidone, Val Trebbia e Val di Nure e la Brigata Nera Mussolini fu inviata a Rivergaro in Val Trebbia. E qui cominciarono i duri confronti con i partigiani. Al loro arrivo furono accolti da un nutrito fuoco. Una Breda 37 sparava dal campanile. Dopo il primo smarrimento si organizzarono e la mitraglia del campanile fu fatta tacere. Ma un brigatista era caduto. Si trattava di quel Piacentini Natale, di Barga, che poi darà il nome alla Brigata. Era il 24 novembre 1944. Comunque il paese fu occupato e setacciato. C’erano segni sicuri di presenze partigiane non occasionali. Nella notte i vari plotoni della Brigata si sistemarono in alcune case e la presenza di partigiani al di là del fiume era evidente e avvertibile. La brigata proseguì avanti fino a Travo, poi al Passo del Cerro e, quindi, a Bettola in val di Nure. Dopo circa una settimana – dice Sebastiani – la Brigata fu richiamata a Piacenza per essere destinata da qualche altra parte.
 Il Comando era rimasto a Piacenza ma almeno parte della brigata rimase a presidiare Rivergaro, sistemandosi nella locale caserma dei carabinieri.  Infatti altri quattro brigatisti caddero combattendo contro i partigiani il 30.12.44 : Lolli, Bianchi Alceste e Bianchi Amerigo, e Fedi Franco il 31. Sebastiani parla di 5 morti durante un incontro coi partigiani per uno scambio di prigionieri avvenuto prima di Natale. Ma non abbiamo morti registrate intorno a quel periodo. A meno che non siano i quattro suddetti e il periodo indicato da Sebastiani sia sbagliato. Un camerata di Piacenza riferisce che la B.N. di Lucca non aveva una buona fama. Specialmente i giovani della brigata avevano fama di essere piuttosto duri. C’è una località nei pressi di Rivergaro dove un cippo ricorda la morte di tre persone uccise dai fascisti. Si trattava di tre garfagnini che, rastrellati dai tedeschi, erano riusciti a fuggire mentre stavano per essere trasportati in Germania. Ora stavano cercando di rientrare in Garfagnana in qualche modo e quella notte (era il 29 dicembre 1944) avevano trovato riparo in una cascina del luogo. Al mattino, mentre stavano per rimettersi in cammino, furono intercettati da alcuni imprecisati fascisti e uccisi. Persone di Piacenza mi dicono che la gente del luogo ritiene si trattasse di uomini della B.N. di Lucca. Nessuna prova certa, però.
 Poi la brigata nei primissimi giorni di gennaio 1945 passò il Po per recarsi a Milano al comando delle BB.NN. dove Pavolini le avrebbe assegnato una nuova destinazione.
 
 
 La partenza per la nuova destinazione avvenne subito dopo  il 31 dicembre 1944. Attraversato il Po si fece tappa a Lodi, poi Utimperghe si recò a Milano dove incontrò Pavolini che gli comunicò che la brigata sarebbe stata inviata a Pinerolo per poter poi operare in Val Pellice e nelle valli contigue. Il grosso della brigata si spostò in treno mentre “ l’autobus e gli autotreni procedevano in colonna”. Sebastiani descrive così l’autocolonna: “due motociclisti e una camionetta in testa, poi l’autobus, quindi un paio di autocarri, l’autoblinda che trainava un rimorchio, due camionette e due motociclisti. Ma l’autobus doveva essere un rottame perché si fermò, dovette essere rimorchiato e li fece tribolare assai. Scortati dalle camionette e dai motociclisti” avrebbero proceduto per vie secondarie fino a un punto di incontro stabilito vicino a Candia Lomellina. Utimperghe, infatti, volle far passare l’autoblinda da Milano per mostrarla a Pavolini. Poi avrebbe raggiunto la colonna nel luogo, appunto, stabilito. E così accadde. Subito dopo Utimperghe partì per Pinerolo su una camionetta scortata da una seconda camionetta, ordinando alla brigata di raggiungerlo là. E la colonna attraverso Casale Monferrato ove ci fu una tappa, Bra, Carmagnola raggiunse Pinerolo all’alba del mattino successivo.
 La brigata, su disposizione “del comando italo-germanico” fu sistemata nel modo seguente: il comando con la prima e la terza compagnia a Cavour, la seconda a Bricherasio, all’inizio della Val Pellice, a una diecina di chilometri da Cavour. Rimase a Pinerolo il servizio di sussistenza. Sebastiani sostiene che, tramite il clero locale contattato dal già nominato professor Pacini fu stabilito quasi un patto di non aggressione coi partigiani locali “”…noi siamo qui per riposare e staremo quieti se anche gli altri faranno altrettanto””.  In effetti ci furono perlustrazioni in Val Pellice ma senza grandi scontri e senza dar noia alle popolazioni seguendo le “pacifiche direttive ricevute” . Anzi contribuirono ad assistere quelle popolazioni portando dei viveri loro destinati ma che nessuno aveva il coraggio di portare. Di azioni definite “belliche” se ne citano soltanto due: una nell’alta Val Pellice (Cima del Bric de Poi) e una sulle montagne sopra Saluzzo. Qui Sebastiani parla di due morti e tre feriti. Nel nostro elenco dei morti della brigata, però, non abbiamo nessuno caduto in quei luoghi. Avevamo, invece, nell’elenco dei caduti di Bagni di Lucca Giancarlo Martini non ancora diciassettenne (della cui morte Sebastiani parla a pag. 104) figlio di quel dentista (in realtà odontotecnico) ucciso dai partigiani a Palleggio (Bagni di Lucca). Avevamo i dati di questo caduto ma non risultava della B.N. Invece, evidentemente, lo era, anche se non compare nell’elenco del 14 agosto. La data di morte che ci risulta è il 19.3.45 e combacia con quel che dice Sebastiani, che era il giorno di San Giuseppe. Malgrado questi scontri, però, pare che una tregua ci fosse effettivamente stata e che i prigionieri partigiani in mano alla brigata fossero trattati umanamente, anzi quasi amichevolmente.
 E in realtà pare che anche i tedeschi e la stessa SS fossero interessati ad evitare scontri coi partigiani e guai con i civili. Sebastiani parla di un capitano Hans Von Bratusch Marrain, nobile austriaco antinazista ma fedelissimo al suo ruolo nell’esercito tedesco che esplicitamente diceva che era inutile infierire dato che la guerra era, ormai, irrimediabilmente persa e prossima alla fine. Ma anche il comando tedesco del Piemonte, che si trovava ad Airasca, tra Pinerolo e Torino, e che aveva chiesto di vedere Utimperghe, lo invitò a tenere saldamente i presidi in posizione difensiva ma “evitando inultili rappresaglie contro chicchessia” . Forse erano al corrente delle trattative in corso dei vertici tedeschi.
 
 
Eravamo, ormai, in aprile. Il 23 Pavolini telefonò intimando: “Fucilare tutti i prigionieri e raggiungere a tutti i costi Milano”. Ma Utimperghe, dati gli ordini affinchè la seconda compagnia che era a Bricherasio si spostasse a Pinerolo dove si sarebbero riuniti tutti per la immediata partenza per Milano, liberò, nella notte, tutti i prigionieri. E anche il Prof. Pacini, probabilmente col tacito consenso di Utimpergher, si dileguò. E non fu il solo. Io ho notizia certa di un altro brigatista che si dileguò, ma probabilmente ce ne furono altri. Dopo di che, riunite tutte le compagnie a Pinerolo, nella notte stessa la brigata partì per Milano. A Torino mancò la riunione con la B.N. Ather Capelli che era già partita. Poco prima di Vercelli si unirono alla brigata “Mussolini” alcuni plotoni dei Btg Pontida e Montebello. E si andò avanti, bersagliati dai partigiani di Moscatelli. Secondo Sebastiani ci furono dei caduti che vennero abbandonati sul ciglio della strada e dei feriti che, là dove fu possibile, vennero lasciati nelle canoniche. Giunti a Vercelli nella mattina del 24, incontrarono Morsero che era stato federale a Lucca. Qui ci fu una  sosta ma Utimperghe con una sola camionetta si spinse in esplorazione fin nei sobborghi di Milano. Qui trovò un telefono e parlò con Pavolini che confermò l’ordine di raggiungere al più presto la prefettura, naturalmente con l’autoblinda e il maggior numero di forze possibile. Quindi ritorno veloce a Vercelli e, radunata la brigata, ordinò partenza verso Milano. Doveva essere il tardo pomeriggio del 24. Ma partì tutta la brigata ? Quasi certamente no. Infatti mentre sappiamo per certo che nelle prime ore del 25 aprile Utimperghe con “una trentina” di uomini entra a Milano,  a Vercelli si va costituendo la “colonna Morsero” (che partirà alle ore 15 circa del 26) della quale, secondo Pierangelo Pavesi faceva parte anche la Brigata Nera “Mussolini”, forte di una compagnia comando e di ben 6 altre compagnie. Si dice anche (pag.59) che la B.N. di Lucca e la B.N. di Vercelli si unirono alla colonna nei pressi di Borgo Vercelli perché partite in ritardo. A questo punto si  può ipotizzare che una parte della B.N. di Lucca sia rimasta a Vercelli quando Utimperghe è partito e si sia unita alla colonna. E’ probabile che Utimperghe, consapevole della pericolosità e durezza dell’impresa, abbia selezionato e portato con se un gruppo ridotto ma formato da brigatisti assolutamente affidabili, lasciando gli altri a Vercelli, Dicevamo che Utimperghe arriva a Milano. Non è noto l’itinerario seguito ma Sebastiani non fa menzione di Novara. Forse è stata aggirata. Ma potrebbero anche averla attraversata dato che l’occupazione partigiana di quella città pare sia avvenuta il 26 (vedi Pavesi pag 62). A Milano c’erano già vaste zone occupate dai partigiani. Utimperghe e i suoi uomini le attraversarono, travolgendo anche, con l’autoblinda, alcune auto partigiane che ingombravano la strada e, finalmente, giunsero alla prefettura. “Alla prefettura arrivammo in una trentina” dice Sebastiani. Evidentemente erano quelli che il Capo aveva scelto di portarsi dietro. Del loro arrivo alla Prefettura di Milano da testimonianza anche Mazzantini nel suo “A cercar la bella morte”. Qui attesero l’arrivo del Duce. Formatasi la colonna per Como, la brigata di Lucca non si accodò subito. Persero tempo per recuperare due brigatisti che erano in ospedale. Presumo che uno dei due fosse il fratello dello stesso Sebastiani. Però riuscirono a raggiungerla e viaggiarono nella notte subendo attacchi che causarono altri morti e giungendo a Como al mattino “sotto un cielo plumbeo”. Utimperghe si incontrò con i comandanti della “Aldo Resega” e della “Muti” e con Pino Romualdi ed ebbe l’incarico di rintracciare il famoso camioncino carico di documenti che si era perduto durante il trasferimento. Furono inviati dodici uomini con l’autoblinda. Sebastiani dice che il camioncino non fu trovato e ci fu un duro attacco partigiano che costò altri 4 morti e due feriti. Nel pomeriggio di quel 26 aprile (doveva essere il tardo pomeriggio) Sebastiani racconta che Utimperghe lo informò che Mussolini era partito all’alba verso Menaggio senza attendere nessuno e che Romualdi lo stava rintracciando per consentire alla colonna di raggiungerlo. Indi gli consegnò un plico da recapitare a Graziani in prefettura. Sebastiani andò e, al suo ritorno, seppe che l’autoblinda si era mossa due minuti dopo la sua partenza. Ne concluse che Utimperghe aveva voluto salvarlo lasciandolo a Como.
 
CON MUSSOLINI VERSO DONGO
 
 L’autoblinda, quindi, (forse seguita da qualche altro mezzo con qualche altro brigatista oltre quelli dell’autoblinda, ma sono notizie molto incerte) raggiunge Mussolini sulla via di Menaggio. Secondo Carradori questa arriva a Menaggio con Pavolini verso le ore 1,30 – 2 del 27 aprile. Erano con loro altre due autoblinde,  Vezzalini, ferito al volto e la colonna di tedeschi comandati dal tenente Fallmayer. Pavolini, Vezzalini e altri fra cui Utimperghe vanno da Mussolini e Pavolini, pallidissimo, riferisce sulle forze che ha potuto portare. Ma Vezzalini dice che vuol ritornare a Como per raccogliere altre forze e Mussolini lo invita a prendere due autoblinde. Solo quella della B.N. rimarrà. Secondo Mussolini è sufficiente.
 Al mattino la colonna si mette in marcia. Mussolini sale sull’autoblinda e siede davanti fra il comandante Tremi e Chiavacci l’autista. All’interno dell’autoblinda, sul vasto pianale, sono una ventina di persone. Sono: Cap. Tremi Evandro di Empoli, Giorgi Giovanni, Del Grande Ginese, Menichini Alberto o Alfredo, Sebastiani Giuliano, Chiavacci Merano, Maresciallo Taiti, Brig. Gasperini Aldo, Piero Carradori, Vincenzo De Benedictis (Enzino), attendente di Pavolini, Barsotti, Coltelli Alfio, Giorgetti Luigi, Degl’Innocenti Mario, Degl’Innocenti Nello, Barracu, Pavolini, Bombacci, Utimperghe, Casalinuovo, Elena Curti.  Nel libro di Carradori, inoltre, si cita anche il mitragliere Banci Sergio che, però, io non ho trovato nominato in altre parti. Infine nella ricostruzione di Petacco si dice che quando Pavolini saltò fuori dall’autoblinda per l’ultima battaglia fu seguito da Enzino, Casalinuovo e Paolo Porta. Da cui si evincerebbe che sull’autoblinda c’era anche Paolo Porta.
 
LA FINE
 
 A un tratto l’autoblinda, che aveva gomme comuni con camera d’aria, buca una gomma (pare per i chiodi a tre punte che i partigiani avevano disseminato) e Chiavacci si ferma. Ma Tremi gli dice di proseguire ugualmente. Così si fa, faticosamente, ma nei pressi di Musso c’è lo sbarramento della strada. Dai partigiani partono alcune raffiche cui si risponde con una mitraglia. Poi tutto si placa e tre persone con un panno bianco si fanno avanti. Sono il capitano Barbieri, lo svizzero Karl Hoffmann e una terza persona. Pare che i tedeschi stiano per sparare e Barracu li ferma. Si scende dall’autoblinda per parlamentare. I partigiani dicono che per passare bisogna avere il permesso del comandante che è a Colico. Allora parte una camionetta con Fallmayer, due tedeschi e due partigiani. Intanto la gente, visto che non si spara, si avvicina a curiosare. C’è soprattutto un prete molto curioso e Carradori suppone che sia stato lui a riconoscere Mussolini. La camionetta ritorna dopo 4 ore alle 14,30. I tedeschi possono passare ma gli italiani no. A questo punto Mussolini sale sul camion tedesco, l’autoblinda si scansa tanto che  finisce nella cunetta per far passare i camion tedeschi. A quel punto il capitano partigiano Barbieri invita gli italiani ad arrendersi, ma Barracu dice che vogliono tornare a Como. Barbieri dice che non ce la faranno mai ma, alla fine, dice “Arrangiatevi”. Così, secondo Carradori, autoblinda e macchine si rigirano e partono verso Como, ma alla prima curva trovano pietre e tronchi d’albero che sbarrano la strada e sono costretti a fermarsi. Subito i partigiani iniziano una furibonda sparatoria. Allora Barracu e Pavolini alzano un panno bianco legato a un filo di ferro. E scendono dall’autoblinda, probabilmente insieme ad altri. Ma la sparatoria partigiana riprende ancora più violenta e cadono Taiti e Gasperini. Pavolini e Barracu rispondono al fuoco ma tutti gli altri si arrendono a mani alzate. Allora Pavolini ed altri, fra cui lo stesso Carradori, si buttano verso il lago sempre sparando e Pavolini si getta nel lago. Ma una barca carica di partigiani cattura sia Pavolini che Carradori colpendoli selvaggiamente. Pavolini è stato anche ferito al volto da una fucilata a pallini.
 La versione di Petacco sul suo “Pavolini, l’ultima raffica di Salò” contiene qualche variante. Secondo lui alle 16,15 Chiavacci avvia il motore dell’autoblinda e da una forte accelerata per uscire dalla cunetta. Il mezzo fa un balzo in avanti e i partigiani cominciano a sparare e a lanciare bombe. Dall’autoblinda si risponde mentre Chiavacci cerca di rigirare il mezzo. Ora è di traverso col di dietro appoggiato al muretto verso il lago e lì rimarrà.
 Nella sparatoria perdono la vita Taiti e Gasperini (“stanno agonizzando sull’autoblinda”). Secondo Petacco è Barracu che vuole arrendersi ma Pavolini balza fuori seguito dal suo attendente Vincenzo De Benedictis (Enzino), Casalinovo e Paolo Porta e, sparando, si buttano verso il lago. Gli altri si arrendono e anche quelli che hanno seguito Pavolini vengono presi. Pavolini, invece, si è portato su degli scogli che emergono dal lago e spara ancora.
 Solo la sera una barca andrà a catturarlo e lo troverà immerso nell’acqua, ferito e semiassiderato.
  Né Carradori né Petacco riferiscono particolari sul comportamento di Utimperghe e dei suoi uomini in quei frangenti ma pare di capire che non compirono gesti disperati e, semplicemente, si arresero. Però su un sito di Empoli che parla anche di Utimperghe ho trovato questa frase: “Insieme a Pavolini Idreno resistè al blocco dei partigiani e fu catturato col mitra fumante in mano, un MAS francese che la leggenda metropolitana vorrebbe passato a Valerio per l’esecuzione di Mussolini”.                                                                                                                                                  
  Il giorno dopo 28 aprile 15 uomini più il fratello di Claretta vengono fucilati sul lungolago di Dongo. Fra di essi c’è Utimperghe che, prima di essere fucilato, aveva chiesto il necessario per farsi la barba e si era accuratamente rasato. Tutti, come riconosce anche Petacco, morirono con grande dignità.
 Si chiudeva, così, la storia della 36^ Brigata Nera “Mussolini”. I suoi caduti pare siano stati 42. Io ho rintraccuiato i nomi di 39 ma, se aggiungiamo quelli citati (purtroppo senza nome) da Sebastiani credo siano più di 42.                                                                                  
 
IL PROCESSO ALLA BRIGATA NERA
 Il 21.10.1947 presso la Corte d’Assise di Lucca ebbe inizio il processo a carico di 168 imputati di vari reati, dal semplice collaborazionismo a reati più gravi. Di questi 13 erano morti e la maggior parte degli altri beneficiò dell’amnistia del 1946. Il processo, quindi, fu celebrato a carico di 21 brigatisti per i fatti di Castelnuovo Garf. Il 22.11.47 fu emessa la sentenza che comminò 5 ergastoli e 10 condanne a 30 anni.
 Furono condannati all’ergastolo: Ricci Aurelio, Emilio Dal Poggetto, Almo Dal Poggetto, Rossi Lio e Rossi Mariano. Furono condannati a 30 anni:
Mario Ceragioli, Mario Degli Innocenti, Giuseppe Farnocchia, Mario Fedeli, Tullio Fedeli (morto nel frattempo), Orlando Giorgetti, Mastronaldi Francesco, Lido Tamarri, Vivarelli Gino. Non ho notizie certe del decimo. Fu, forse, il Mastronaldi padre ? Purtroppo non sono riuscito a decifrare del tutto gli atti del processo.
 Tuttavia ci furono degli immediati ricorsi e, nei successivi gradi di giudizio, fra riduzione di pene e amnistie nel corso degli anni cinquanta tutti finirono col riacquistare la libertà.
Vorrei concludere aggiungendo qualcosa sulla figura di Utimperghe
 
L’UOMO UTIMPERGHE
 
Che uomo era, in definitiva, questo Utimperghe, spesso descritto come un avventuriero senza scrupoli, come un capitano di ventura, un uomo a volte feroce e spietato, a volte generosissimo ? Così lo descrive Piero Sebastiani che, giovanissimo (era nato nel 1927), gli fu molto vicino e ne subì un grande fascino che ancora oggi traspare dalle cose che racconta: “”Questi era Idreno Utimperghe, del quale generalmente si parla come di un avventuriero brigantesco e stravagante. In realtà Utimperghe fu un uomo affascinante, personaggio composito, lunatico, imprevedibile, capace di assoluta ferocia quanto di estrema generosità, ma pericolosamente eccessivo.””
 Cominciamo col dire che era indubbiamente un uomo dotato di molto carisma e di fascino sia con gli uomini che con le donne. Durante la sua permanenza a Palermo strinse una relazione con una donna importante: una  Contessa  (3), ricca nobildonna palermitana da cui ebbe anche un figlio e che rimase sempre molto affezionata a lui, tanto che il fedele brigatista Silla Turri di Castelnuovo Garfagnana dopo la bufera fuggì in Sicilia dove la contessa lo aiutò a nascondersi e, poi, a rifarsi una vita laggiù.
 Quanto alla ferocia e alla spietatezza, tuttavia, non abbiamo trovato episodi eclatanti che le provino. Anzi: Dopo l’attentato partigiano del 20 agosto, ad esempio, evitò, come abbiamo visto, ogni forma di rappreseglia malgrado la B.N. avesse avuto un morto e alcuni feriti. Fra le azioni più feroci compiute dalla B.N. sono da annoverare le otto uccisioni fatte a Castelnuovo come rappresaglia all’attentato del 22 settembre. Utimperghe non era presente al momento dell’attentato (fino al 25 fu Barga il “capoluogo di provincia” e Utimperghe stava lì). Sebastiani dice che arrivò dopo e “” Probabilmente spinto dalla rabbia dei brigatisti del luogo, autorizzò una rappresaglia”. Ma certamente non fu lui a ordinare che avvenisse con quelle modalità.  In Garfagnana si è sempre saputo che l’artefice primo delle feroci uccisioni  fu Lio Rossi, che era un esaltato e, forse, non perfettamente equilibrato (è morto in manicomio). Altro fatto piuttosto atroce (forse il peggiore di tutti) fu il trascinamento del partigiano legato al camion e che fu attribuito anche ai brigatisti. La modalità con cui la cosa avvenne è tutt’altro che certa, e anche le responsabilità sono tutt’altro che certe, come ho già avuto modo di dire . Quel che è certo è che Utimperghe non c’era. Egli, a quanto anche il Sebastiani dice, era già in Emilia a predisporre gli alloggi per i suoi uomini che stavano arrivando. D’altra parte se consideriamo la reazione all’agguato del 3 agosto ai due brigatisti in motocicletta, che fu certamente ordinata da lui, essa consistè in un rastrellamento forse anche un po’ brutale, ma non ci furono uccisioni e furono catturati e consegnati ai tedeschi soltanto cinque uomini che, fra l’altro, come dicono le cronache, a fine guerra tornarono dalla Germania sani e salvi. E quando, a Pinerolo, giunse l’ordine di Pavolini di uccidere tutti i prigionieri e raggiungere Milano, egli non li uccise ma li lasciò tutti liberi. E quando, a Como, fu deciso di seguire Mussolini, si preoccupò di recuperare Sebastiani Giuliano che era in ospedale temendo che, abbandonandolo lì, sarebbe stato facilmente ucciso. Per non dire del suo paterno comportarsi col Sebastiani Piero, che allontanò con una scusa perché potesse salvarsi.
 Il suo comportamento come Capo Provincia, poi, fu, come abbiamo visto, tutt’altro che superficiale e irresponsabile.  L’ultima avventura, poi, lo vide perfettamente consapevole del suo destino. Racconta un reduce (anche lui esortato a salvarsi da Utimperghe) che, al momento dell’addio, egli (U.), perfettamente conscio di andare verso la morte, radunò gli ufficiali e disse loro che la responsabilità di tutto quello che la B.N. aveva fatto la assumeva interamente lui e lui avrebbe pagato per tutti. Disse anche che non aveva nessuna voglia di vivere in quella che sarebbe stata l’Italia del dopo. Per cui era preferibile concludere l’avventura con la morte.
 A completarne il ritratto c’è la sua ultima richiesta fatta a Dongo prima di essere condotto sul luogo della fucilazione: il necessario per radersi. Voleva presentarsi all’ultimo appuntamento dignitosamente e ben curato come sempre. E con la sigaretta in bocca.
 
 
NOTE
(1)    Prima  nel Comune di Fosciandora il Ricci aveva fatto nominare il Sig. Bonini Angelo.  Nella delibera si legge:  “”Sono presenti il Dr. Martinelli
       Fernando, Isp.Federale del P.F.R., Ricci Aurelio, Segretario del Fascio, Bonini Pietro, Bonini Angelo, Antonino Pantò, segretario. Tutti i 
       presenti riconfermano la loro dedizione assoluta al Governo Fascista Repubblicano e la fiducia nella rapida riscossa del popolo italiano, oggi più
       che mai decisissimo alla vittoria e vivamente proteso verso il suo destino glorioso.””  
(2)    Durante la permanenza a Barga – dice Mons. Lombardi – la B.N. non dette noia e non creò problemi.
(3)    Pare si trattasse della contessa Giovanna Trigona di S. Elia, figlia del conte Romualdo e della bellissima Giulia Trigone uccisa dall’amante nel 1911. Giovanna, che era nata nel 1904, si sposò con  Beppe Albanese, appassionato automobilista ed essa, dopo la morte del padre (1929) si dette a una vita spericolata correndo con la Bugatti del marito.
 
 
       DOCUMENTI 5 :  FOTO
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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