“Arthos” ha in questa occasione l’onore di pubblicare i ricordi militari di un grande studioso e combattente, in una parola un autentico uomo della Tradizione: il professor Pio Filippani Ronconi. E’ questa la sua esperienza nelle Waffen SS combattenti e chi l’ha scritta è oggi quasi certamente l’unico sopravvissuto del Battaglione “degli Oddi” che partecipò all’impresa di Nettuno.
La figura di Pio Filippani Ronconi non dovrebbe avere, per il nostro pubblico, bisogno di presentazioni: tuttavia, a favore dei più giovani, qualcosa si dovrà dire. Nato da antica famiglia romana a Madrid nel 1920, apprende fin da bambino lo studio delle più disparate lingue orientali ed estremo-orientali: sanscrito, turco, persiano, arabo, tibetano ed altre ancora. Naturalmente viaggia ed esperimenta di persona in Oriente uomini, dottrine e tradizioni. Insegna dapprima presso l’istituto Universitario Orientale di Napoli “Storia del Pensiero Cinese” e successivamente riveste la cattedra di “Religioni e filosofie dell’India”. Se ha approfondito lo studio del Tantrismo, delle concezioni gnostiche e del magismo in differenti ambiti culturali, non ha trascurato le religioni e le concezioni dell’Italia antica, da Roma agli Umbri delle Tavole Iguvine.
Innumerevoli sono le sue pubblicazioni scientifiche. Ricorderemo qui soprattutto i tre volumi delle Upanishad (Boringhieri), i Discorsi Brevi del Canone Buddhista (UTET), la Storia del Pensiero Cinese (Boringhieri), Ismaeliti e Assassini (Arché), Magia, Religioni e Miti dell’India (Newton Compton), Le vie del Buddhismo (Basaia), Vak, la parola primordiale (Pungitopo).
ARTHOS
LA 29a DIVISIONE GRANATIERI SS
I. PER LA DIGNITA’ PERSONALE E COLLETTIVA
Un popolo che perde la propria memoria storica è un popolo destinato alla schiavitù fisica e morale, prima, alla perdita della sua identità nazionale, poi, e, infine, alla sparizione. A poco potranno giovargli – come all’italiano – l’essere stato l’autore di ben tre civiltà, il fatto di possedere il 90% dei monumenti d’arte di tutta l’Europa, il favellare nella lingua più armoniosa e bella del mondo, l’avere le donne più belle e gentili del globo terracqueo, e l’aver avuto gli uomini più intelligenti e valorosi del genere umano. Nulla da fare, un siffatto popolo, che dimentichi chi è e che cosa ha fatto, è destinato a sparire.
Come da noi sono spariti i Romani quando non solo il retaggio del sangue ma anche quello della cultura venne a mancare, quando si chiusero i templi, ma anche le biblioteche, quando, di fronte all’imminente pericolo ostrogoto, c’era un papa che s’infuriava con quei giovani che di notte avevano cercato di riaprire il tempio di Giano per tener lontano il nemico e ingiungeva loro di smetterla di ispirarsi alle storie di Tito Livio – cui poi sarebbe stato dato fuoco – ma legger piuttosto i Salmi penitenziali e piangere sui propri peccati. Allora Roma morì, perchè vennero spente le idee ed i ricordi, sui quali si sarebbe potuto ricostruire un consenso popolare e un’aristocrazia senatoria, al posto di quella estinta dalla spada barbarica in quel sesto secolo terribile.
Ora, Noi Italiani in quest’ultimo mezzo secolo ci troviamo ad affrontare un simile pericolo, trovandoci di fronte all’incessante e forsennata campagna, condotta però con astuzia sopraffina, intesa a farci dimenticare chi siamo e come siamo divenuti quello che siamo, non solo, ma come “dobbiamo riessere”, per recuperare il posto che ci compete nel concerto delle Nazioni. La massima offesa è quella che viene arrecata alle nostre tradizioni militari, nelle quali cioè si incarna la virilità del nostro popolo e del suo destino.
Ora, proprio per collaborare al “rammemoramento” spirituale della mia gente, mi sono deciso a recuperare alcuni di uno di quei reparti “maledetti da Dio e dagli uomini” che col sangue lavarono la nostra bandiera dal fango della resa dell’8 settembre 1943.
Orbene, ordinare e rendere intelligibili i propri ricordi a distanza di cinquant’anni dagli eventi non è cosa facile, specialmente per chi si è trovato direttamente contessuto nei fatti: egli rischia in ogni momento di parlare di sé e non ciò che obbiettivamente vide e sperimentò. L’emozione allora patita, oggi rievocata, può turbare il suo giudizio anche se, a conti fatti, egli era un attore dei medesimi avvenimenti che oggi vuole far conoscere. Si tratta di due cose diverse anche se concominanti; i fatti storici, dei quali qualsiasi libro od opuscolo onestamente scritto può dare contezza molto meglio di chi vi sta parlando e, d’altra parte, la particolare atmosfera ambientale e l’emozione soggettiva con cui tali avvenimenti sono stati vissuti da coloro nei quali, in qualche maniera, per quei seicento giorni si incarnò, anche se in minima misura, il destino della Nazione italiana.
Poiché, salvo l’episodio eroico di Nettuno (chi vi parla ha vissuto solamente una frazione dell’esistenza della Divisione italiana delle Waffen-SS) la sua descrizione prenderà la forma di una narrazione testimoniale dei fatti, nel senso che parlando di sé e della ventura cui andò incontro, tratterà dell’oggetto nel modo più distaccato ed obiettivo possibile.
Mi rendo anche conto, oggi, della non-importanza dei sentimenti soggettivi di ognuno di noi allora di fronte al dramma della nostra Nazione in quel momento storico, dramma che tuttora non si è esaurito, almeno per coloro che considerano la Nazione come un concreto Ente spirituale – quasi un arcangelo – ben trascendente i singoli individui che ad essa si indentificano. Questa consapevolezza ci indusse a consacrarci – nel senso più religioso del termine – affinchè l’Italia superasse la vergogna della disfatta, attraverso la dedizione di coloro che non volevano arrendersi.
La resa dell’8 settembre fu invero la “sincope” dell’Italia faticosamente nata dal Risorgimento nazionale e proiettata verso il futuro, più come “volontà di essere” che come organismo naturale.
Il Fascismo, nel suo migliore periodo, interpretò la tensione verso “ciò che si doveva essere” che “non ciò che si era”. Caduto che fu, e fino al giorno d’oggi, il nostro passato è stato sistematicamente dissacrato, il futuro negato.
Di fronte ai miti nevativi di “Franza o Spagna, purchè se magna”, del “Papa-re”, dell’utopia internazionalista come panacea dei nostri mali, noi volemmo riscattare la nostra dignità personale di soldati e quella collettiva di Italiani, di fronte all’alleato tradito ed agli inimici di sempre.
In quei frangenti non fu tanto importante la scelta di campo – anche se per noi il tema della fedeltà era determinante – quanto il fatto puro e semplice di continuare a combattere. Il ferro avrebbe medicato le ferite dell’Italia prostrata dal tradimento.
Combattere significava continuare ad esistere. Come in un nuovo Medioevo i disarmati divennero schiavi delle decisioni altrui; gli armati, se non altro, ebbero la possibilità di morire col ferro in pugno, decentemente.
Così nacquero fra di moi varie “corporazioni militari”, naturali associazioni di uomini d’arme, in parte continuazione delle èlites del vecchio esercito – paracadutisti, fanterie da sbarco, arditi, alpini, bersaglieri – in parte seguendo un modello innovativo, paradossalmente riallacciantesi alle antiche phratrìe di guerrieri votati ad un ideale, fedeli ad un capo riconosciuto, come fu il caso di Julio Valerio Borghese e della “sua” Decima MAS, della SS, della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), delle varie Brigate Nere locali.
Per me i motivi furono almento tre: la “europeicità”; di fronte a Fiamminghi, Tedeschi, Valloni, Scandinavi eccetera, noi Italiani potevamo dimostrare di essere i migliori di tutti in ogni senso e in ogni campo.
In secondo luogo vi era, e non esagero affatto, l’elemento “mistico”: quella primordiale “terribilità” nell’azione unita ad un’arcaicità di concezioni gerarchiche, per cui al centro di queste Unità combattenti esisteva un Ordine, come quelli dei Cavalieri Teutonici o dei Portaspada, attirava irresistibilmente chi aspirasse alla dedizione totale si sé nel combattimento.
II. ARMAMENTO ETEROGENEO E INSUFFICENTE
Questo senso terribile di devotio, di offerta sacrificale di sé, era accresciuto da una vena di insegnamento esoterico, in parte derivante dalle esperienze delle varie Thule-Gesellschaften dopo la prima guerra mondiale e, in parte, dalle discipline meditative riportate in Europa dalle varie missioni della SS in Tibet alla fine degli anni ‘30. Del resto, il simbolo runico stesso della doppia “runa” della vittoria, le sue Siegrunen (da Sieg, vittoria) indicavano l’aspirazione verso la vittoria su se stesso e sul mondo esterno.
Come terzo motivo, specialmente per un giovane ufficiale quale io era, nelle Waffen-SS vi era la possibilità – almeno così io credeva – di sperimentare in prima persona il livello addestrativo e combattivo delle forze armate germaniche, governate fin nei minimi gradi da quella Auftrags-Taktik per cui ognuno sapeva ciò che doveva fare in qualsiasi occasione e situazione, senza attendere l’imbeccata dai superiori (la cosiddetta Befehls-Taktik).
Vengo ora alla mia esperienza concreta nelle Waffen-SS.
Nel novembre 1943, congedatomi dalla medaglia d’oro Barracu, sottosegretario alla Presidenza della RSI (Repubblica Sociale Italiana), di cui ero ufficiale d’ordinanza, mi arruolai come soldato semplice nel primo reparto delle Waffen-SS in cui m’imbattei a Gargnano sul Garda, dove dimorava il Duce.
Spedito a Verona, dove il generale Hansen stava formando un’unità italiana di combattimento, fui riconfermato nel mio grado di ufficiale e assegnato alla 1a Compagnia.
Evitai di stretta misura di diventare ufficiale addetto al generale Lombard, successore del generale Hansen.
Ignoravo che, nel frattempo, erano stati creati vari battaglioni italiani, parte dei quali, provenienti dai campi di M ünsinger nel Württemberg e di Débica in Moravia, erano confluiti nella cosiddetta Waffen-Miliz / Milizia Armata, trasformata successivamente nelle “Unità Armate Italiane delle SS (Italienische Freiwillige Legion, I.F.L.), dalla quale venne tratta la 1a Brigata d’Assalto (Erste Sturm-Brigade) italiana delle Waffen-SS, costituita in seguito all’accordo fra il Duce ed il Führer nell’ottobbre 1943.
A questo punto comincia la vera storia delle cosiddette SS italiane, termine di comodo addottato per semplificazione e per facilitare l’arruolamento di elementi italiani. In realtà finche portarono le mostrine rosse, i militi della Brigata d’Assalto – prima dell’impiego al fronte – formavano un’unità ausiliaria delle Waffen-SS vere e proprie. Solo dopo l’impiego al fronte, e le straordinarie prove di valore date in linea, essi diventarono – con le mostrine nere su cui spiccava il simbolo delle tre freccie incrociate su un cerchio, in alternativa alle Siegrunen – Waffen-SS a tutti gli effetti.
Essi vennero a far parte, col numero d’ordine 29 (già detenuto da una divisione russa), delle 30 divisioni si SS-combattenti, in parte tedesche, in parte straniere (francesi, vallone, fiamminghe, olandesi, scandinave, estoni, tatàre, croate eccetera); un corpo eccezionale destinato a diventare il futuro esercito europeo.
Proprio per fomentare il carattere combattente e non “pratico” della Divisione, il Duce emanò il divieto di iscriversi al PFR (cioè Partito Fascista Repubblicano), al quale tutti noi, me compreso, avevamo già disatteso. Venni a sapere che il nerbo di questi reparti in formazione era la 97a Legione delle CC.NN. (Camicie Nere) che, agli ordini del console De Maria, si trovava dislocata nel retroterra di Spalato, in Dalmazia, all’atto dell’armistizio da lui istantaneamente rifiutato. Da questa unità, integrata con volontari (vi erano perfino Svizzeri!), vennero tratti due battaglioni, il primo detto “Débica”, dal nome della località suaccennata ov’era stato addestrato, il secondo denominato “degli Oddi” dal nome del primo seniore della MVSN, conte Carlo Federico degli Oddi, che lo comandava da molto tempo, eccellente ufficiale dotato di una calma serafica nelle peggiori situazioni e di straordinario ascendente sui suoi subordinati, come avrei visto a Nettuno. Dirò, per curiosità, che questo ufficiale aveva fra i suoi beni la bandiera della Repubblica di Siena, che un suo antenato aveva difeso contro i Medici e gli Spagnoli, trecento anni prima!
Al comando di tutta la Legione italiana era destinato l’Oberführer Karl Diebitsch (colonnello brigadiere) vecchio colonnello prussiano di artiglieria, che aveva la caratteristica di non dormire mai in seguito alle spaventevoli ferite riportate al cranio nella prima guerra mondiale. Costui, che aveva una stupefacente simpatia per gli Italiani e per quanto fosse italiano, constatato lo stato miserevole del nostro armamento, andò di persona a requisire i vari magazzini militari italiani caduti in mano tedesca, per rifornirci di quanto, armamento ed equipaggiamento, ci era necessario, che, data l’urgenza, non poteva venirci dalla Germania. Eravamo, perciò, armati in maniera eterogenea e francamente insufficente.
Vi regnava, a dire il vero, una disciplina sommaria ma straordinariamente efficace, propria ai soldati di mestiere che hanno fatto molte campagne insieme, con ufficiali che si erano dimostrati degni di rispetto.
Questa disciplina, unita all’esperienza di guerra che tutti avevamo, ci permise di ovviare alla deficienza di armamento e di equipaggiamento.
III. ANDATE SOLO A MORIRE
La divisa era quella propria ai reparti di assolto italiani (colore grigioverde), giubba da paracadutista senza colletto e solino, calzoni da sei serrati alle caviglie, berretto alpino tedesco col Totenkopf a coccarda e l’aquila romana col fascio sulla sinistra del berretto, idem sulla giacca; i gradi, per ufficiali e sottufficiali, quelli germanici sulle spalline, per i graduati sul braccio; cinturone, quello delle SS germaniche con la divisa Meine Ehre Heiszt Treue (“il mio onore si chiama fedeltà”); il colore delle mostrine e dello sfondo per i gradi era rosso per i reparti “dipendenti”, Waffen-Einheiten, nero per i reparti a tutti gli effetti delle SS, SS-Einheiten, cioè quelli che avevano dato prova di valore al fronte e quindi erano SS vere e proprie, totalmente equiparati a quelli germanici.
Il battaglione fu approntato il 12 marzo 1944, con un organico di 650 uomini, cioè 32 ufficiali, 93 sottufficiali e 525 uomini di truppa, ai quali ultimi si aggiunsero una decina di ragazzi “clandestini” dai 14 ai 16 anni, che cercammo di rimandare a casa o negli Istituti dai quali erano scappati per venire a combattere. Cacciati, ritornavano, magari portandosi appresso qualche parente maschio, come il quindicenne Giorgio Viti, oppure, fra una fuga e l’altra, andavano a intrufolarsi come “mascotte” in un reparto germanico di paracadutisti, come i quattordicenni Angelo Cera e Gino Marturano, che affrontò straordinarie avventure belliche, più adatte ad un vecchio soldato che a un giovinetto. Qualcuno ancora di questi ragazzi, a guerra finita, come il quattordicenne Luciano Trevisan, finì assassinato dai partigiani comunisti.
Che si trattasse di un reparto di assalto o, se fosse il caso, di un “reparto suicida” lo dimostrano le parole rivolteci dal generale Emilio Canevari al rapporto ufficiale, nella caserma della Bicocca, alla vigilia della partenza: “Signori Ufficiali, non un passo indietro! Voi non andate per fare bella figura, ma solo a morire! Da come vi comporterete in combattimento dipenderà se i Tedeschi riarmeranno un esercito Italiano”. Fu come buttare un secchio di benzina sul fuoco languente: approssimativamente armati e sommariamente equipaggiati, partimmo come furie vendicatrici da Milano (Scalo Greco) il 13 marzo 1944 alle ore 7 per Littoria (ora Latina), dove si giunse una settimana dopo con un viaggio lentissimo in attesa di altre unità con cui formare la Kampfgruppe al comando dell’Oberführer Diebitsch, unità che non arrivarono mai perchè distratte in altri compiti o distrutte in altre azioni sulla strada verso il Sud.
La 1a Compagnia, alla quale io appartenevo, al comando del capitano Buldrini, entrò in linea presso Cisterna, nel settore del 2o Battaglione SS-Panzer-Grenadiere Rgt. 35, la 2a e la 3a Compagnia si andarono a sistemare a Cisterna-Canale Mussolini (oggi Canale Italia) e Borgo Podgora, nel settore tenuto dal o Battaglione SS-Panzer-Grenadiere Rgt. 36; in particolare, la 2a Compagnia diede il cambio a una Compagnia del Barbarigo, che aveva subìto perdite ingenti.
Il terreno fangoso, con l’acqua a 60 cm. di profondità, la necessità di costruire i trinceramenti, di notte, per una guerra di posizione, rendeva assai dure le condizioni di vita.
Ho sotto gli occhi il testo del rapporto ufficiale del Capo di S.M. (Stato Maggiore) del generale Karl Wolff, Comandante generale delle SS in Italia, che era il colonnello Eugen von Elfenau, noto per essere pochissimo tenero nei riguardi degli Italiani. Il testo è uno stupefacente inno al valore italiano: dopo aver sommariamente descritto vari episodi di combattimenti da arditi, specialmente dei due nuclei della 1a Compagnia (uno dei quali comandato da chi vi parla), che le meritarono ben due volte la menzione sul Foglio d’Ordini del LXXVI Corpo d’Armata tedesco (14a Armata), il von Elfenau dichiara, parlando dell’offensiva anglo-americana e del ripiegamento: “…sulla linea di resistenza i nostri uomini rimasero sino all’estremo limite delle loro possibilità, sparando sino all’ultima cartuccia sulle fanterie americane che seguivano i carri armati; respinsero i carri armati in combattimento ravvicinato scagliando fino all’ultima bomba a mano contro i cingoli e le feritorie dei carri stessi… Il nemico il 23 maggio sera raggiungeva la via Appia, i resti dispersi del Battaglione cercarono di riunirsi per formare piccoli centri di resistenza… Fino alla mezzanotte del 24 maggio mantenne un caposaldo sulla via Appia, all’incrocio con il canale delle acque medie, per consentire ad un Battaglione di Cacciatori appiedati della Luftwaffe di ripiegare da Littoria senza correre il pericolo di rimanere circondato…” (e oltre) “Il Battaglione è rimasto ininterrottamente in linea esattamente per nove settimane … distinguendosi particolarmente, oltre che per eccezzionali fatti d’arme, anche per aver saputo tenere il suo vasto tratto di fronte a quasi cinque chilometri fino all’estremo limite delle proprie possibilità. Esso ha servito egregiamente a rinforzare e sostituire unità germaniche particolarmente provate nei duri combattenti controffensivi del febbraio per il rimpicciolimento della testa di ponte di Nettuno…” (e infine, è sempre un colonnello tedesco che parla) “la fomazione del 2o Battaglione in oltre due mesi di duri combattimenti contro un nemico assai superiore di armi e mezzi, ha saputo far rifulgere in pieno le doti di valore, di coraggio, di spirito di sacrificio, di abnegazione più assoluta del soldato d’Italia di tutti i tempi … ha assolto compiti che richiedevano audacia, valore e sprezzo della vita da parte di tutti, ha tenuto posizioni difficilissime e fondamentali contro le quali invano, fino allo sfondamento del fronte, si è accanita la strapotenza e l’urto del nemico. Esso ha avuto perdite complessive del quasi 70% degli effettivi … Questo Battaglione che ha ottenuto di sostituire con il nero delle SS tedesche il rosso delle mostrine delle SS italiane, che ha riscosso ammirazione illimitata da parte di tutti gli ufficiali tedeschi alle cui dipendenze fu in combattimento, questo Battaglione, avanguardia delle nuove truppe italiane, che non ha mai chiesto nulla ma che ha sempre dato tutto… che due volte è stato menzionato sul Foglio d’Ordini tedesco di Corpo d’Armata, ha scritto una delle più belle pagine di gloria degne in tutto delle più alte tradizioni guerriere della vera Italia…”
Chi vi parla, purtoppo, non ebbe l’onore di partecipare a questi ultimi combattimenti (era già stato ferito in azione di arditi contro Borgo Flora). Ebbe in cambio, l’onore di veder citato all’ordine del giorno del Corpo d’Armata il reparto speciale formato da 30 uomini della 1a Compagnia comandato dal sottotenente Bovenzi e dai lui stesso.
Lasciammo sul terreno il 70% dei nostri, a misurare col loro corpo la Terra Patria, fedeli alla parola data.
Proprio dei giorni dell’epilogo ci giunse la Compagnia Fattovich, 180 uomini e l’”Unità complementi Hiemer”, 134 uomini e 6 pezzi controcarro 7,5 tedeschi con 2 ufficiali, 6 sottufficiali e 30 artiglieri, proprio mentre si chiudeva la partita definitivamente.
Mancherei al mio dovere di soldato se dimenticassi il piccolo reparto di Russi Bianchi, probabilmente appartenenti alla ROA (Russkaya Osvaboditelnaya Armiya), Cosacchi appiedati reduci nientedimeno che della controrivoluzione del 1918-19, che combatteva con noi, alla nostra destra: ebbi da loro la papakha di ordinanza, che indossavo ogni qualvolta “uscivo” col mio reparto, al tramonto, a cercare gatte da pelare. Il valore di questi veterani rese ampiamente onore alle tradizioni del cessato esercito imperiale russo, quattro lustri dopo la sua presunta dissoluzione.
IV.RICONOSCIMENTO DALL’ALLEATO
Il 2o Battaglione dell’81o Rgt., detto “degli Oddi”, ebbe, a mia cognizione, i seguenti riconoscimenti.
Il primo, in data 3 maggio 1944, emesso dal Reichsführer SS comunicava: “Per il valore dimostrato e per il senso del dovere i volontari della SS italiana sono considerati reparti delle Waffen-SS con tutti i doveri e tutti i diritti”; il secondo, sempre a firma del Reichsführer SS, recitava: “Per il valore dimostrato e per il senso del dovere i reparti italiani delle Waffen-SS indosseranno distintivi di grado e contrassegni a fondo nero in tutto identici a quelli degli altri reparti SS”. E, infine, il terzo riconoscimento d’onore: “Autorizzasi il cambio di denominazione della prima Brigata d’Assalto della Legione SS Italiana in 1a Brigata Italiana Granatieri SS”.
Nell’autunno del 1944, a Mariano Comense, il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani appuntò la medaglia d’argento al valor militare al vessillo del 2o Battaglione. Un Reggimento germanico di formazione, assieme ai Rgt. 81 e 82 della 29a Divisione SS (Italia 1a), rese gli onori sfilando in parata di fronte ai 164 superstiti dell’impresa di Nettuno. La motivazione della ricompensa fu la seguente: “Insieme ad altre avanguardie delle nuove truppe italiane sul fronte, rimase in linea ininterrottamente per oltre due mesi assolvendo compiti particolarmente difficili e mantenedo posizioni fondamentali contro le quali, invano, fino allo sfondamento del fronte, si accanì il potentissimo urto nemico. Due volte menzionato sul Foglio d’Onori di Corpo d’Armata, premiato con l’autorizzazione a fregiarsi delle mostrine nere delle SS germaniche, ha avuto decorazioni tedesche e numerosissime promozioni per merito di guerra davanti al nemico. Esempio fulgido di fede e di grande amore alla Patria, resisteva con inesorabile tenacia e valore all’impari e asperrima lotta di più giorni consacrando con il sangue del 70% dei suoi effettivi il “Giuramento” e scrivendo una della più belle pagine di gloria, degne in tutto delle più altre tradizioni della vera Italia. Fronte di Nettuno – Roma, 17 marzo – 5 giugno 1944, XXII”.
Le ricompense al valor militare – che io sappia – furono: E.K.II 29 (Croci di ferro), Promozioni per merito di guerra 57, altre decorazioni 16.
Fino a qui i miei ricordi personali sul fatto d’armi di Anzio-Nettuno (1944). Dovetti abbandonare definitivamente il campo di battaglia e il mio Battaglione perchè ferito una seconda volta, seriamente, nella preparazione di un colpo di mano su Borgo Flora, che costituiva la cerniera fra la divisione Kansas e le altre unità angloamericane.
Mi venne riferito che il battaglione “Débica”, che presumo comandato dal maggiore Sassi, non riuscì a raggiungere il fronte di Nettuno, ma venne duramente impegnato dagli americani a Palo, nella zona di Civitavecchia, ove soffrì di numerose perdite. Successivamente, ripiegando sulla direttrice Viterbo-Spoleto, bloccò per cinque giorni una unità statunitense provvista di carri armati ed altri mezzi corazzati, distruggendone alcuni.
Appena rimarginate le ferite, rinunciai alla licenza di convalescenza e mi presentai alle truppe al Deposito, a Cremona, comandato dal maggiore (Sturmhannführer) Alois Thaler, aloatesino, già capitano del Regio Esercito, reduce della Russia, grande invalido, assistito dal capitano Terzi. Venni destinato a ufficiale d’ordinanza e interprete del generale di divisione Piero Manelli, Ispettore all’arruolamento di volontari (Freiwilligenwerbung), con sede a Torre dei Picenardi, indi a Bergamo. Il generale, proveniente dalla MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), aveva provveduto in Francia, immediatamente dopo l’annuncio dell’armistizio, ad organizzare reparti di volontari italiani, che poi si batterono in Normandia nei ranghi delle SS germaniche.
Successivamente dividemmo la sede di Torre dei Picenardi con il generale, già colonnello brigadiere (Oberführer) Erich Tschimpke, presso il quale ebbi le medesime mansioni. Il generale Tschimpke venne, poco dopo, designato a ricoprire il comando delle Unità italiane delle SS, che costituirono la 29a Divisione delle Waffen-SS; la quale, a parte reparti aggregati ad essa operanti in Istria e Dalmazia come i Karstjäger (Cacciatori del Carso), era formata da 13 Battaglioni con un totale di 8535 uomini, ripartiti in 976 ufficiali, 1013 sottufficiali e 6596 soldati e graduati di truppa, stanziati nell’ampio territorio prealpino che dal Piemonte arriva fino al Veneto ed all’Emilia, se è vero che a Ferrara vi era il Battaglione Ufficiali comandato dal colonnello Luigi Pietri Tonelli.
V. PAURA DI UNA RINASCITA MILITARE ITALIANA
Questi Battaglioni, che vennero a far parte, nel 1944, dei reggimenti 81o e 82o, comandati rispettivamente (qui la mia memoria è incerta) dai tenenti colonnelli degli Oddi e Giorleo, sono i seguenti: il 1o, 2o, 3o a Milano e Monza fanno parte, al principio, del 1o Reggimento della “Milizia Armata”, comandato dal console Paolo De Maria, che poi verrà destinato ad altro incarico e sarà sostituito o dal degli Oddi o dal Giorleo, già comandante del 3o Battaglione; il 4o Battaglione a Torino, comandato dal maggiore Ereno Giona, indi dal maggiore Del Soldato; a Bologna (Borgo Panigale) era il 5o Battaglione agli ordini del maggiore Giorgio Marzoli; a Cuneo, il 6o Battaglione comandato dal capitano Tullio Traverso; a Casale il 7à agli ordini del maggiore Michele Michelini; a Lecco l’8o comandato dal maggiore Carlo Pace; a Lucca il 9o comandato dal maggiore (seniore della MVSN) Valentino Fracasso (primo seniore) Gilberto Fabris.
Mi consta che tutti questi reparti furono successivamente impiegati nella lotta anti-partigiana di cui, però, né conosco, né ricordo i particolari. So, molto semplicemente, che – soprattutto in Piemonte, in particolare nel Cuneense ed in Lombardia – la lotta assunse caratteri molto drammatici e punte di grande asprezza, ma anche, alla fine, le fomazioni partigiane furono vinte, disperse, o costrette a passare in Francia.
Come ho detto in qualche altro mio scritto, la 29a Divisione “Italia” delle Waffen-SS fu in gran parte un progetto fallito, non a causa dello scarso valore dei suoi legionari, ma per il motivo opposto. Il tributo di sangue dato dal Battaglione “degli Oddi” (il 70% degli effettivi), l’altissimo numero di decorati di Croce di ferro e di promossi sul campo, la distruzione quasi totale del Io Battaglione “Débica”, a Palo e sulla via del ripiegamento, che però rallentò notevolmente l’avanzata nemica nella Tuscia ed in Umbria, suscitarono sì ammirazione esplicita, ma anche vivi timori presso certe autorità germaniche per una possibile rinascita militare italiana con qualche inconveniente per il futuro.
Voluta a Berlino, la 29a Divisione venne in pratica sabotata dallo Höchste Befehlshaber in Italien, Obergruppenführer Karl Wolff, che già stava trattando con gli Alleati nella vicina Svizzera e, se non da lui, dalla sua “anima nera”, lo Sturmbannführer, poi Oberführer, Johann-Eugen von Elfenau, alto ufficiale già dell’Esercito Federale Svizzero, passato assieme ad altri 800 connazionali a servire il III Reich (di probabile origine romantscha o addirittura italiana, dato che il suo vero nome era Carodi). Contravvenendo agli ornidi da Berlino e sordo alle proteste quotidiane dei due generali Mannelli e Tschimpke, dirottava il fior fiore dei volontari italiani, perfino ex-partigiani, che si arruolavano chiedendo di essere mandati al fronte, spedendoli in reparti impegnati in operazioni di polizia antipartigiana, che era stata esclusa dall’accordo di arruolamento. Aquesto si aggiunge, negli ultimi mesi della guerra, l’afflusso di “falsi volontari”, che avevano fatto domanda di arruolamento per uscire dai campi di prigionia in Germania, ai quali i nostri ideali non interessavano affatto essendo totalmente opposti ai loro.
Molto paradossalmente fu proprio un ufficiale ex-italiano, l’altoatesino maggiore (Sturmannführer) Alois Thaler a sottrarre con le sue Ersatz-Einhaiten (“complementi”) i migliori elementi italiani dalla scelleratezza di una guerra civile per combattere la quale erano già in campo altre unità a ciò addestrate.
Travolti dalla perversa logica di una lotta che non riguardava né loro, né la Divisione alla cui formazione si erano dedicati, il maggiore Thaler ed il capitano Sommer dopo la fine della guerra, nella primavera del 1945, moriranno fucilati dai partigiani a Rodengo-Saiano.
Chiudo questa mia rivista di ricordi non ancora cancellati dal tempo rammentando che, spesso sconosciuta, la presenza italiana – dopo l’infausto armistizio – fu attiva nelle varie Divisioni tedesche sul Baltico e sul fronte orientale, oltre che in Occidente. Ricordo a tale proposito i 6830 volontari italiani della Divisione Götz von Berlichinger, che si batterono in terra francese, dalla Normandia al Reno, tenendo alto il nome della loro razza e onorato della Patria lontana.
PIO FILIPPANI RONCONI
Conosco la storia tanto da sapere che gli italiani sono sempre stati strumento in mano di stranieri, mi sono interessato a queste vicende anche per motivi familiari essendo mio padre un reduce che non ha mai voluto raccontarmi le sue vicissitudini. Sperando in un futuro più consapevole e non manipolato dai traditori della sx saluto con rispetto.
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