lunedì 9 settembre 2013

8 settembre, la morte della Patria



di Mario M. Merlino

8 settembre, settant’anni dopo. Non so cosa hanno scritto i giornali e se si riannoda il filo della memoria e se qualcuno ha ricordato la definizione di Ernesto Galli della Loggia su ‘la morte della patria’ o se altri si sono dati da fare per indicare agli sprovveduti e ai privi di conoscenza di quelli avvenimenti come, al contrario, essa sia rinata. E con essa la libertà e la democrazia… Ad esempio a Porta San Paolo, dove ogni anno si tiene una commemorazione tutta trasudante enfasi e menzogna, in memoria dei granatieri, omettendo che il generale Solinas, al comando della breve quanto inutile difesa, aderì alla Repubblica Sociale. Oppure alla divisione Acqui sterminata in malo modo dalla proverbiale ferocia dei tedeschi nell’isola di Cefalonia, omettendo anche qui come si sparò su dei zatteroni germanici mentre erano ancora in atto le trattative (e guarda caso furono ufficiali italiani che, sopravvissuti!, aderirono alla resistenza comunista avendone lodi e decorazioni).


Ed altro ancora… omettendo come furono gli inglesi, nell’immediatezza della resa – tuttora gabellata come armistizio –, che coniarono un nuovo verbo, to badogliate, per indicare un tradimento spregevole. E  le numerose e varie dichiarazioni del medesimo tenore, rinnovate ogni volta che si deve coinvolgere o meno l’Italia (nel 1997 proponendo gli Stati Uniti l’adesione al Consiglio permanente di Sicurezza dell’ONU di Germania e Giappone, le due nazioni sconfitte, e non del nostro paese, anch’esso collocato fra i vinti al tavolo della pace a Parigi, ma considerato inaffidabile). Sarebbe troppo facile sparare sulla Croce Rossa, si potrebbe parafrasare, ma non ci appartiene quel rito, italianissimo, di parlare male del proprio paese magari portandoci addosso i medesimi vizi deprecati e le scarse virtù, evitando però ogni tentativo di migliorarne l’immagine…

Beh, ognuno può raccontare in quale modo ha vissuto, quale è il  proprio ricordo dell’otto settembre. Penso a Mario Castellacci e al suo libro La memoria bruciata dove ‘il colore grigio della vergogna’ domina sulla zona di San Giovanni, a Roma, con decine di soldati cenciosi inermi inebetiti disfatti e un solo tedesco che li tiene con le mani in alto e sotto la minaccia della canna del mitra. Ugo Franzolin e le telescriventi del Ministero della Marina che battono ripetutamente dalle navi dai porti dalle basi per avere ordini e nessuno risponde, tutti si sono squagliati…

E ricordo quanto mi raccontava Mario C., diciotto anni, di famiglia ebrea, che si arrampica sul tetto dell’ascensore con sotto i condomini, guidati da un alto ufficiale, che contano di poter capire cosa sta accadendo, mentre si avverte il rombo del cannone e il cielo si arrossa verso porta San Paolo. ‘Guarda dove c’è il Quirinale.’ – gli intima l’ufficiale – ‘Se vedi il tricolore, vuol dire che Sua Maestà il Re è al suo posto e con lui la nostra salvezza. Sì, a destra, in fondo, una torretta…’. Scende una pioggerella lieve. E Mario: ‘Sì, sì, vedo la bandiera, ma… ma la stanno ammainando’.

Si volta, abbassa lo sguardo. Con le braccia appoggiate al muro l’ufficiale piange. Pochi giorni dopo si arruola con la promessa, l’unica richiesta del padre, di andare a combattere per l’Onore d’Italia, magari evitando di indossare la camicia nera…

8 settembre 1943 – 8 settembre 2013. E in mezzo, anno dopo anno, ogni anno, qualcuno che avevamo avuto accanto o soltanto parte di un mondo di un area, come ci piaceva definire la molteplicità della ‘nostra’ realtà, se ne distaccava, chi in silenzio e disperdendosi nel rumore degli altri forse con un po’ di nostalgia e rimorso e chi, al contrario, abbisognando di pubbliche abiure, di adorare chissà quali vitelli d’oro e per qualche posto posticino poltrona salotto anche in platea, seconda fila, purchè essere nel grande consesso liberatorio dai sensi di colpa, dal ‘ghetto’, muri di gomma ostracismo superomismi rovesciati.

Il tenente Mazzoni, ‘umilissimo e profondamente modesto e totalmente esaltato’, della legione Tagliamento, quando venne l’ordine di arrendersi nell’aprile del ’45 in Val Camonica, ‘non disse una parola… raggiunse uno spiazzo sotto un abete e si fece saltare le cervella con un colpo di pistola’ e (così scrive Giorgio Albertazzi, da pochi giorni novant’anni, nella sua autobiografia dal titolo Un perdente di successo) commenta ‘non si fa una guerra come quella, già perduta, se non per affermare proprio una realtà: essere disposti a morire per un’azione da compiere, un’estetica della morte’.



Disdicevole, inutile, da lettino dello psichiatra, erede in formato ridotto di quel ‘buffone’ di D’Annunzio, pattumiera della storia, quante ne abbiamo sentite e quante sulla nostra pelle noi che, in scala ancora minore, siamo cresciuti, non dirò per l’ennesima volta il motto che mi sono coniato con consapevole autocompiacimento, ma con Dostoievsky ‘solo la bellezza ci salverà’ e scoprire, al contrario, quanta bruttezza s’era incrostata in tanti di noi, un male oscuro e osceno un rodimento interiore un bubbone pestifero ad esplodere… ma, 8 settembre 2013, ancora levare al sole uno straccio di Idea, simile a bandiera di seta, e gettare al vento una canzone, ne abbiamo tante e tutte dagli accenti esaltanti, per un altro pezzo di strada, percorso di storia, certi che comunque e nonostante tutto siamo e saremo ‘belli’ finchè saremo qui ed ora ‘ai confini del nero’…

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